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La figlia di Caccia: 'La morte di mio padre è ancora un mistero scomodo' PDF Stampa E-mail
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Scritto da Giuseppe Legato   
Martedì 27 Giugno 2017 21:01

di Giuseppe Legato - 27 giugno 2017

«Siamo contenti che dopo anni si sia tornati a indagare sull’omicidio di nostro padre. E per questo ringraziamo il nostro legale Fabio Repici e la procura per le indagini che ne sono seguite. Una cosa è certa: a prescindere da come andrà la sentenza, questo è per noi un punto di partenza. Sarebbe imperdonabile moralmente e storicamente richiudere la storia dell’omicidio di nostro padre nei cassetti per i prossimi 25 anni com’è stato fin qui». 
Via Sommacampagna è rimasta la stessa di 34 anni fa, quando un commando di killer della ‘ndrangheta calabrese sparò al procuratore di Torino Bruno Caccia chiudendo con largo anticipo un’epoca di indagini contro la ‘ndrangheta mirate ai soldi e al riciclaggio. Il cancello nero in ferro, le targhette dei campanelli, gli oleandri. Il tempo si è fermato 
A casa Caccia i figli aspettano la sentenza fissata per il 17 luglio. La Corte d’Assise deciderà sulle sorti processuali di Rocco Schirripa, panettiere di Torrazza Piemonte, ‘ndranghetista, imputato di aver partecipato a quel delitto eccellente. «Non sappiamo con quale ruolo, ma siamo d’accordo con la ricostruzione della procura. Per noi lui era lì, lui c’entra» dice la figlia Paola.

 

Che effetto le ha fatto rientrare in un’ aula di Tribunale 30 anni dopo il primo processo?  

«Negli Anni Ottanta, quando fu condannato Domenico Belfiore, non vedevo l’ora che le udienze finissero. Ero lì, ma cercavo di dimenticare. Oggi crediamo ci sia ancora molto da portare alla luce».

 

 

Dire che siete solo parzialmente soddisfatti delle indagini fin qui svolte è corretto?  

«Noi ringraziamo la procura di Milano per quanto fatto. L’indagine della Squadra Mobile è stata brillante. E ci teniamo a precisare che non abbiamo mai abbandonato il processo. La nostra è la storia di una famiglia di legge che rispetta la magistratura». 

 

Cosa manca allora?  

«Non è stata considerata la pista che avevamo suggerito e che portava al riciclaggio di capitali mafiosi nei casinò, a Rosario Pio Cattafi, a Demetrio Latella. È stata bollata come “alternativa”. Secondo noi era complementare. Poco prima del delitto, nostro padre aveva spiccato i mandati di perquisizione al casinò di Saint Vincent».

 

 

Da tempo si parla di un pezzo di magistratura dell’epoca che – è agli atti - mal digeriva l’azione di suo padre e aveva aderenze pericolose con membri del gruppo Belfiore. Cosa pensa?  

«Purtroppo mio padre parlava molto poco di lavoro. Se lo avesse fatto, oggi saremmo in grado di capire di più. Mia mamma diceva che le aveva parlato del suo vice, l’allora aggiunto Flavio Toninelli, in termini per nulla positivi, ma altro non sappiamo. Spiace davvero che la sua storia sia passata agli annali come un delitto eccellente in una parte d’Italia, al Nord e poco più. Questa lacuna va colmata». 

 

Torino non ha memoria?  

«C’è stata un’operazione di rimozione collettiva. Quando a un importante politico comunicarono che avrebbero intitolato il Palazzo di Giustizia a Bruno Caccia rispose: “Non c’è già una piazza che lo ricorda?”. Noi siamo tornati nelle scuole a raccontare la storia di quest’uomo che accettò l’incarico di procuratore a Torino perché lo sentiva come un dovere». 

 

La sua nomina non piacque a tutti

«Il Palazzo si spezzò in due: ci fu chi fece domanda per entrarvi e chi chiese di essere trasferito».  

 

Cosa manca nel lavoro fatto fin qui secondo voi?  

«Ritenere che desse fastidio solo alla ‘ndrangheta è credibile ma riduttivo. Mi piacerebbe che chi sa dicesse qualcosa ora e non si portasse i segreti nell’aldilà». 

 

Sta chiedendo a Belfiore di parlare?  

«Belfiore l’ho incontrato. Sono andata a casa sua a Chivasso, insieme a mio marito, contro il parere degli investigatori. Mi sono detta: se c’è anche solo una probabilità che possa parlare e non ci proviamo, mi sentirò in colpa tutta la vita. Cosi ho incontrato l’uomo che ci ha tolto nostro padre». 

 

Cosa ricorda di quell’incontro?  

«Una sensazione di profondo disagio. Non ebbi l’impressione di una persona in fin di vita. Lo trovai lucido, concentrato a ribadire ossessivamente la sua estraneità a qualunque attività criminale». 

 

Si aspettava una confessione?  

«Speravo ci aprisse un varco. Mi sbagliavo». 

 

A chi rivolgersi allora?  

«Penso ai colleghi di papà di allora, ai giovani magistrati del tempo che lui apprezzava perché erano pieni di entusiasmo. Alcuni di loro, ancora oggi, ci ripetono che non c’è nient’altro in questa storia». 

 

Voi non lo accettate?  

«No. Quando nel 2011 ho seguito in diretta l’operazione Minotauro con centinaia di arresti ho pensato che dopo l’omicidio di nostro padre la ‘ndrangheta a Torino è decollata e ha potuto agire con relativa libertà, per trent’anni». 

 

L’obiezione che si può sollevare è che il processo a Schirripa è rinchiuso in un perimetro che non consente di accertare altre responsabilità. Cosa ne pensa?  

«Il nostro avvocato ha fatto un lavoro enorme e ha chiesto, ragionevolmente di allargare questo perimetro. Ci hanno detto che si farà in futuro. Lo pretendiamo per senso di verità e giustizia». 

 

Trent’anni dopo c’è una domanda a cui lei non riesce a trovare una risposta?  

«Una in particolare: per un anno almeno, calabresi e catanesi si incontrarono per pianificare il delitto. Poi, di colpo, ci fu un’accelerazione, proprio in concomitanza con le perquisizioni in Val D’Aosta. A noi sembra chiaro che questo c’entri. E sembrò cosi anche al pretore di Aosta Giovanni Selis che indagava sui casinò e che subì un attentato sei mesi prima. In un’intervista dichiarò: secondo me Caccia lo hanno ammazzato per lo stesso motivo». 



Giuseppe Legato (La Stampa)





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Carla e Bruno Caccia






 







 

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