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Borsellino quater, tra falsi pentiti e silenzi istituzionali PDF Stampa E-mail
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Scritto da Aaron Pettinari   
Lunedì 09 Gennaio 2017 22:05
di Aaron Pettinari - 12 dicembre 2016

Le testimonianze dei falsi pentiti, l’accusa di calunnia nei confronti degli imputati Andriotta, Scarantino e Pulci, i “non ricordo” istituzionali, una verità che viene affrontata a partire dal 2008, quando l’ex boss di Brancaccio, Gaspare Spatuzza, racconta una nuova verità sulla strage di via d’Amelio. Sono questi i temi affrontati in aula dal pm Stefano Luciani alla ripresa della requisitoria nel quarto processo per la strage che uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta, in corso davanti alla Corte d'Assise di Caltanissetta. “Grazie al lavoro che si è fatto in questi anni - ha ricordato  con forza il pm, presente in aula assieme al Procuratore capo Amedeo Bertone e al procuratore aggiunto Gabriele Paci - otto persone che erano state condannate all’ergastolo sono oggi oggetto di un processo di revisione. Nessuno degli ex collaboratori di giustizia si è mai seduto spontaneamente davanti a un magistrato, dal '92 al 2008, per dire di avere raccontato un mucchio di falsità. E noi dobbiamo capire come si è giunti al giugno 2008, occorre demolire e rovistare tra le macerie, comprendendone le cause e le ragioni”.

Pur ricordando in più occasioni che verrà depositata una memoria illustrativa in cui verranno analizzati completamente tutti i punti della vicenda, per comprendere le posizioni degli odierni imputati, Luciani non ha potuto fare a meno di analizzare anche le dichiarazioni di Salvatore Candura, ovvero l’uomo che aveva detto di aver consegnato la Fiat 126 utilizzata nella strage del 19 luglio 1992 all'ex picciotto della Guadagna Vincenzo Scarantino. Pian piano, il pm, ha sviscerato le numerose contraddizioni emerse nei suoi confronti.
“E’ il 3 ottobre del 1992 che il Candura si addossa la colpa del furto dell’auto - ha ricordato il pm -. Quando viene sentito nel novembre 2008, pochi mesi dopo il pentimento di Gaspare Spatuzza, conferma ancora una volta di essere stato lui a rubare la 126 usata per la strage di via D'Amelio e che a commissionargli il furto era stato Vincenzo Scarantino, nonostante fosse già iscritto nel registro degli indagati per il reato di calunnia. Il giorno dopo, messo spalle a muro, si siede davanti ai pm e dice di aver detto un mucchio di falsità. E’ questo il materiale umano che abbiamo a disposizione e che avevano a disposizione anche al tempo e con cui dobbiamo fare i conti, perché noi tutti non dobbiamo commettere altri errori”. Nel proseguire la propria requisitoria il magistrato ha anche evidenziato come “le dichiarazioni in cui accusa i poliziotti di esser stato picchiato per esser convinto a raccontare ciò che volevano gli investigatori le rende solo nel 2011, ma non ne fa parola né negli interrogatori del 2009 né in quelli del 2010, quando una cosa del genere dovrebbe essere la prima che uno racconta”. Le violenze subite sono solo alcune delle dichiarazioni che il falso pentito ha rivelato per la prima volta davanti alla Corte d’assise. Altri dettagli sono stati forniti sui colloqui che avrebbe avuto con l’allora Capo della Squadra mobile, Arnaldo La Barbera ed i funzionari, Salvatore La Barbera, Vincenzo Ricciardi e Mario Bo. Quest’ultimi in passato erano stati indagati (quindi archiviati) per il depistaggio proprio sulla scorta delle dichiarazioni dei falsi pentiti.
E poi ancora le dichiarazioni, dette solo in dibattimento, su un soggetto che lui conobbe come un magistrato, ma che lui riconduce ad un appartenente dei servizi segreti, con cui ebbe un approccio anche se non sa chiarire se prima o dopo il 3 ottobre 1992. “Queste cose - ha detto Luciani - possono essere rilevanti che possono consentire anche per dare una chiave di lettura su varie vicende. Subito vanno dichiarate ai magistrati nel momento in cui si ritratta invece questo non accade in interrogatorio ma solo in dibattimento”.
Il pm ha dunque ribadito in più momenti che le dichiarazioni dei falsi pentiti “non è che non si vogliono valutare per fare qualche piacere a qualche potente” ma, di fronte a “dichiarazioni che presentano aspetti di incoerenza, come quelle di Candura, di contraddizione e progressione in ambito di un raffronto di un atto istruttorio, ci si deve porre con grande attenzione. Perché questo è lo stesso materiale che ha poi condotto gli inquirenti a non maneggiarlo con cura. Quelle dichiarazioni devono essere vagliate, ponderate, sviscerate ed oggettivamente riscontrate in maniera granitica e monumentale”. 


Andriotta “chiave di volta”

Successivamente il pm ha sviscerato la posizione di Francesco Andriotta: “Lui è la leva, la chiave di volta dove si piantano i chiodi a Vincenzo Scarantino. E questo è un dato oggettivo che emerge dagli atti”. “Proprio Andriotta - ha proseguito - è reo confesso. Lo ha fatto qui in dibattimento. Ha ammesso di aver dichiarato il falso ma non lo ha fatto spontaneamente, ma perché non ne ha potuto fare a meno dopo le circostanze emerse nel corso di questo dibattimento". In vari interrogatori ed in aula il falso pentito ha raccontato come il capo della Squadra Mobile Arnaldo La Barbera e il funzionario Ricciardi, lo avrebbe indotto ad accusare Scarantino sul furto della 126. In cambio Arnaldo La Barbera gli avrebbe promesso l'eliminazione dell'ergastolo sostituendolo con una pena tra i 17 ed i 18 anni, lo avrebbe fatto entrare nel programma di protezione, che sarebbe stato trasferito negli Stati Uniti e avrebbe ottenuto tanti soldi. Anche in questo caso vi è “una progressione” nelle dichiarazioni e, ancora una volta, certi particolari sono stati rivelati soltanto durante il dibattimento, come ad esempio quando ha parlato del denaro ricevuto da Arnaldo La Barbera e Mario Bo e che i poliziotti avevano consegnato soldi pure alla sua ex moglie. Non solo. “Quando era detenuto a Ferrara - ha ricordato il pm - aveva detto a un altro detenuto di essersi rigirato Scarantino come una marionetta. Durante la fase di indagine non ha detto al pubblico ministero di avere ricevuto denaro da Arnaldo La Barbera e Mario Bo e che i poliziotti avevano consegnato soldi pure alla sua ex moglie. Quella sarebbe stata una circostanza rilevante, avremmo potuto avere elementi a riscontro della sua dichiarazione, invece lo ha raccontato solo nel 2015, durante il dibattimento. E non può rigirare il discorso dicendo che non voleva mettere in mezzo terze persone. Dice di avere ricevuto appunti, mentre era in carcere a Saluzzo, con le dichiarazioni da rendere, ma ci dice che ha distrutto nel 2006 quei documenti che avrebbero rappresentato la prova regina di questa vicenda, pur dicendo di non avere avuto timore di custodirli in cella”.
Nella requisitoria Luciani ha dunque messo in evidenza alla Corte i vari passaggi di contraddizioni ed incoerenze che si erano presentate nel corso del tempo, facendo riferimento anche alle sentenze dei processi precedenti in cui già si metteva in dubbio la credibilità dello stesso Andriotta quantomeno nella parte delle dichiarazioni sulla riunione che si sarebbe tenuta a Calascibetta (poi rivelatasi fasulla), in cui avrebbero partecipato i capomafia per decretare la morte del giudice Borsellino. Secondo il pm dunque, anche successivamente, Andriotta avrebbe continuato a sottrarre elementi proseguendo in continue “contraddizioni” o “aggiunte alle dichiarazioni”.


Il comportamento di Pulci

Luciani ha poi proseguito affrontando la posizione di Calogero Pulci: “Quello che ha fatto è inaccettabile: ha accusato Tanino Murana dicendo che quest'ultimo gli aveva confidato di essere uno di responsabili della strage di via D'Amelio e che la famiglia della Guadagna aveva incaricato Vincenzo Scarantino di rubare la 126. Lo fa in maniera quasi teatrale perché ci ha raccontato di avere reso quelle dichiarazioni nel processo d'appello Borsellino bis per compiacere il procuratore generale d'udienza e perché si era convinto della colpevolezza degli imputati. E la gente va all'ergastolo per questo?”. Messo di fronte alla falsità delle proprie dichiarazioni, dopo le rivelazioni del pentito Spatuzza, Pulci ha ritrattato “ma - aggiunge il pm - in questo dibattimento ha confermato di nuovo le vecchie dichiarazioni perché, ci ha detto, aveva paura di perdere il beneficio degli arresti domiciliari. Ma di cosa stiamo parlando?".


Quale depistaggio?

Nella requisitoria vengono quindi sviscerate, una dopo l’altra, le dichiarazioni con le false accuse su cui si sono basati parte dei primi processi sulla strage di via d’Amelio. I dati oggettivi di un depistaggio che, come detto dagli stessi pm, è certo così come è evidente il reato di calunnia commesso dagli imputati. Altrettanto certo è che durante questo processo non sono mancati i vergognosi silenzi istituzionali. "È inaccettabile che un funzionario di polizia che credo oggi è dirigente della Squadra mobile (il riferimento è alla deposizione resa in aula dal poliziotto Mario Bo) venga in dibattimento a deporre per sciorinare una serie di ‘non ricordo’. Perché parliamo di vicende molto gravi e anche se magari non ricordi diversi dettagli è tuo dovere andare a rinfrescare la memoria. Perché sei un dirigente appartenente della Polizia di Stato. Scavi, vai a verificare i documenti e quant’altro”. Tuttavia resta da chiarire il movente del depistaggio. Chi ha imboccato Scarantino, Candura ed Andriotta? Cosa si è voluto coprire? Come è stato fatto in concreto? Temi che forse verranno affrontati domani, quando si parlerà della posizione di Vincenzo Scarantino, ed anche nella memoria conclusiva.


Aaron Pettinari (AMDuemila)



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