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Bruno Caccia, questo è il tempo della verità PDF Stampa E-mail
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Scritto da Maria Grazia Olivero   
Venerdì 14 Novembre 2014 23:02
di Maria Grazia Olivero - 6 novembre 2014

CERESOLE. Il primo delitto di mafia al Nord, negli anni del post-terrorismo, quando le indagini sul casinò di Saint Vincent stavano per eruttare un verminaio indicibile. Per la morte di Bruno Caccia, procuratore capo della Repubblica di Torino, ucciso sotto casa con 17 colpi di pistola il 26 giugno del 1983, un boss della ’ndrangheta “settentrionale”, Domenico Belfiore, è stato condannato all’ergastolo come mandante, ma i sicari non si sono ancora trovati. A oltre trent’anni dall’omicidio, Guido, Paola e Cristina, i figli del magistrato sepolto a Ceresole, hanno depositato una denuncia al Tribunale di Milano, che chiama in causa, indicando piste e nomi precisi, le più sconcertanti connessioni italiane, da Cosa nostra ai servizi segreti. Ne parliamo con Paola Caccia.

Come ha vissuto la sua famiglia la tragedia dell’omicidio di suo padre, Paola?

«Siamo rimasti scioccati, chiusi a lungo nel nostro dolore. Abbiamo cercato di superare la tragedia, trasmettendo ai nostri figli i valori in cui credette mio padre. A lungo non ci siamo interessati alle indagini. Avevamo fiducia totale nella magistratura. Solo in seguito, dopo il processo che si è chiuso nel 1992, abbiamo iniziato a interrogarci, mia madre per prima, sui molti temi a cui la sentenza non aveva risposto, e a cercare di capirne le ragioni. Devo ammettere, dopo aver letto gli atti, molta sorpresa per il modo con cui è stato condotto il processo. Purtroppo, temo siano state nascoste alcune verità. Per questo, anche grazie al sostegno di Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti, abbiamo preso coraggio e stiamo cercando di far riaprire il caso. Fin qui conosciamo solo il volto del mandante dell’omicidio di mio padre, il boss della ’ndrangheta Domenico Belfiore, ma non quello di chi lo ha ucciso».

Quali sono i nuovi elementi sui quali chiedete di indagare?

«L’avvocato Fabio Repici, esperto nei processi di mafia, con la consulenza del magistrato Mario Vaudano, ha depositato una denuncia presso la Procura di Milano in cui si indica la pista da seguire: l’indagine sul casinò di Saint Vincent, che mio padre aveva fatto perquisire proprio nel mese precedente la sua morte, e che avrebbe svelato come al casinò venissero riciclate ingenti somme di denaro proveniente da attività criminali. Rileggendo il fascicolo processuale ci si rende conto che molti elementi sono stati inspiegabilmente trascurati dal titolare dell’indagine, il pm Francesco Di Maggio».

Proprio intorno ai casino italiani ruotavano forti interessi criminali.

«Grazie al lavoro dell’avvocato Repici siamo arrivati a ipotesi sulle quali, a nostro avviso, occorre indagare, a partire, ad esempio, dalla falsa rivendicazione dell’omicidio operata dalle Brigate rosse, il cui testo è stato trovato in casa di un mafioso».

Belfiore non avrebbe quindi avuto il ruolo che gli è stato attribuito?

«È stato condannato un “pesce piccolo”, senza andare oltre. Ci sono dettagli importanti, lasciati cadere nel processo, e per questo confidiamo nella riapertura delle indagini, che ci è stata negata lo scorso anno. Lo sentiamo come un dovere in quanto familiari e cittadini. Forse è stata occultata la verità».

Ha ancora fiducia nella magistratura?

«Sì, ho ancora fiducia. Ma devo ammettere che mi aspettavo un altro tipo di impegno da parte della Procura di Milano e dei colleghi di Torino per il raggiungimento della verità. Un maggiore coraggio nel pretenderla, un dovere verso un uomo coraggioso come mio padre che, ai tempi del terrorismo, quando la paura era una costante per noi, ci raccomandava: “Se mi rapiscono non venite a patti”c.

Come ricorda suo padre, Paola?

«Mio padre non aprlava del suo lavoro in famiglia. Abbiamo conosciuto il magistrato dopo la sua morte, grazie ai suoi colleghi, che ci sono stati molto vicini. In casa era un uomo positivo, ottimista, allegro, sereno, anche se rigoroso sulle questioni importanti. Amava l'orto, lo sport, la natura. Gli piaceva mettersi in gioco, giocava a bridge ogni settimana con gli stessi amici. A noi figli ha sempre dato fiducia, esigendo sincerità, ma lasciandoci liberi di seguire le nostre inclinazioni».


Maria Grazia Olivero (www.gazzettadalba.it)








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