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Il Ros al tempo di Mori quando le indagini finivano in un labirinto PDF Stampa E-mail
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Scritto da Attilio Bolzoni   
Lunedì 29 Settembre 2014 16:06

di Attilio Bolzoni - 28 settembre 2014

PIÙ che alle investigazioni si sono sempre interessati alle informazioni. Da diffondere o conservare in archivi sicuri, da barattare, da usare alla bisogna. Alla notizie di reato hanno sempre preferito solo le notizie, proprio come piace a un servizio segreto. Spie travestiti da carabinieri: ecco cosa è stato il Ros del generale Mario Mori.
Campo di battaglia Palermo, missione finale sconosciuta.
Il Ros, acronimo di Raggruppamento Operativo Speciale, ha la colpa grave di avere malamente orientato o intossicato le più grandi indagini su Cosa Nostra a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Non c'è mistero siciliano dove non sia invischiato un ufficiale di fiducia di quel generale, non c'è affare di Stato o di mafia dove una traccia non si perda nel labirinto di quell'alto comando. Anno di nascita ufficiale: 1990. Ma sotto un altro nome — Anticrimine — esisteva anche prima, unità risorta dalle ceneri del Nucleo speciale Antiterrorismo voluto da Carlo Alberto dalla Chiesa nel 1974. C'è però un confine netto tra il terrorismo e la mafia. E c'è un confine ancora più netto fra una lunga battaglia vinta e una resa segnata da sabotaggi, inchieste pilotate, latitanti protetti, covi mai perquisiti, imputati eccellenti graziati. Su ogni «operazione» c'è sempre una firma: Ros. Diciamo subito che stiamo parlando del Ros del generale Mario Mori e non dei reparti speciali dell'Arma di oggi: un'eccellenza, tutto un altro mondo e tutti altri uomini, nuova pagina per fortuna lontanissima dalle manovre orchestrate in quella Sicilia a partire dal 1989, giugno, il fallito attentato all'Addaura contro Giovanni Falcone.

È probabilmente l'inizio di questo romanzo nero che come trama ha capitoli sempre più tormentati e dolorosi: lettere anonime, corvi, talpe, rapporti con pezzi mancanti, Capaci e via D'Amelio, poi il dopo stragi con la trattativa Statomafia. Se prima degli attentati del 1992 il Ros di Mori era rimasto quasi al coperto (a parte un'incredibile indagine sui grandi appalti che invece di smascherare fino in fondo il sistema corrotto è stata trasportata come un pacco in diverse procure — una delle tecniche spericolate tipiche del generale — alla ricerca di un magistrato che seguisse ciecamente le sue istruzioni), dopo è entrato prepotentemente in gioco nello scenario siciliano costruendo la sua fortuna con «l'arresto del secolo», ovvero la cattura di Totò Riina, per meglio dire la data ufficiale del famigerato patto fra apparati e fazioni di mafia.

L'origine della trattativa: la mancata sorveglianza della casa dove abitava il capo dei capi, la sua abitazione svuotata, le telecamere del Ros spente pochissime ore dopo il fermo di Riina, le bugie raccontate alla procura, la lenta reazione dei pubblici ministeri alle opache mosse di quei carabinieri, l'inchiesta giudiziaria contro Mori aperta da Caselli solo 5 anni dopo. Dal giorno in cui Riina è finito in carcere — 15 gennaio 1993 — il Ros di Mori ha spadroneggiato in Sicilia con tutte le sue strutture. Lasciando il marchio su ogni attività d'indagine.

«L'imputato Mori — scrivono il procuratore generale Roberto Scarpinato e il suo sostituto Luigi Patronaggio — ha sempre mantenuto, anche durante il servizio prestato nel Raggruppamento Speciale dei carabinieri — il modus operandi tipico di un appartenenente a strutture segrete perseguendo finalità occulte... e ha sistematicamente disatteso i doveri istituzionali che gravano sugli ufficiali di polizia giudiziaria tenuti ad attenersi alle norme del codice e ai doveri di lealtà istituzionale nei confronti della magistratura traendola in inganno».

In nome della legge ma contro la legge. Al covo di Totò Riina ha fatto così. Assolto perché il fatto non costituisce reato. Al covo dove si nascondeva Provenzano nel 1995 a Mezzojuso (blitz inspiegabilmente abortito) ha fatto così. Assolto perché il fatto non costituisce reato. Al covo nel messinese dove altri carabinieri avevano individuato Benedetto Santapaola (i suoi uomini spararono contro un passante facendo fuggire il boss) ha fatto così. L'inchiesta è ancora aperta.

Favoreggiatore permanente della Cupola o incapace? Abile negoziatore con il nemico per conto proprio o per conto terzi oppure un inetto che ha scalato le gerarchie fino ad arrivare ai vertici dei servizi segreti italiani? In ogni caso c'è una «continuità» nel suo agire. Sempre.

Prima di raccontarvi chi è Mario Mori e da dove viene, è necessario ricordare le altre scorribbande del suo Ros. Ha fermato un ufficiale (Michele Riccio) che aveva come fonte il boss Luigi Ilardo, uno che voleva far prendere Provenzano e che appena ha deciso di pentirsi è stato ucciso. Ha trafficato con l'ex sindaco Ciancimino per il «papello». Ha avuto contatti ravvicinati con Paolo Bellini, uno della ‘ndrangheta e dentro ambienti dell'eversione nera che era depositario di piani di destabilizzazione già prima delle stragi del 1992. Ha avuto sotto la sua ala i pentiti più ambigui di sempre. Uno era Salvatore Cancemi, che a Palermo tutti conoscevano come «Totò Caserma» perché passava il tempo nel quartiere generale del Ros a braccetto con un maresciallo fidatissimo di Mori. E l'altro era Balduccio Di Maggio, uno che nel 1996 è tornato nel suo paese — San Giuseppe Jato — «sotto alte protezioni». E intanto sparava e uccideva. L'ha fermato con una mirabile inchiesta un magistrato, Alfonso Sabella, scoprendo che Balduccio lasciava indisturbato il suo nascondiglio segreto per ammazzare tutti i nemici di Provenzano.

Chi è dunque il capo di questa «struttura » che si è aggirata per la Sicilia spargendo fumi e inquinando pozzi? Nei primi anni Settanta era in forza al Sid (servizio segreto civile) diretto da Vito Miceli, uno della P2. Poi entra nei nuclei speciali di Dalla Chiesa, torna a Roma, scende a Palermo e da lì non se ne va più. Anche quando lo nominano capo del Sisde, la sua testa rimane sempre laggiù, nella tana del lupo. Circondato sempre dai suoi fedeli uomini, amatissimo, un vero comandante. Chi è lei generale?, gli chiedono. «Uno che ha servito l'Italia ». Chi è davvero?, insistono. «Il poliziotto spera di catturare Osama Bin Laden, l'uomo di intelligence spera di acquisirlo come fonte». La passione di una vita: l'info-investigazione.

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