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Dal tribunale al ministero, la signora dei 'non ricordo' PDF Stampa E-mail
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Scritto da Gianni Barbacetto e Sandra Rizza   
Mercoledì 19 Febbraio 2014 23:02
di Gianni Barbacetto e Sandra Rizza- 19 febbraio 2014

Ministro? “L’ho letto sui giornali. Non ho niente da dire. Sono un servitore dello Stato”. Così Livia Pomodoro liquida le voci che la danno candidata al ministero della Giustizia. Intanto continua a fare quello che è e fa da anni: magistrato e donna di teatro. Sì,
perché Pomodoro è presidente del Tribunale di Milano, dopo essere stata dal 1993 al 2007 presidente del Tribunale per i minori. Ma dal 2008 ha una vita parallela: ogni sera, uscita dal suo grande ufficio nel palazzo di giustizia, raggiunge lo Spazio Teatro No’hma, accoglie gli spettatori, va dietro le quinte, organizza la stagione e a volte sale sul palco, diventando attrice: lo ha fatto, tempo fa, anche con una vistosa parrucca colorata. La passione per il teatro l’ha conquistata. “Prima era un’ammirazione per qualcosa d’irraggiungibile”, dice, “per aver respirato in famiglia la cultura e l’arte”: scultori i suoi cugini Giò e Arnaldo Pomodoro, attrice la sorella Teresa. Poi, nel 2008, muore Teresa, gemella, attrice e autrice teatrale, fondatrice del teatro No’hma.
Da quel momento, Livia si sdoppia. Resta giurista e donna manager del tribunale – dice con orgoglio – più “produttivo” d’Italia. E diventa la continuatrice dell’avventura iniziata dalla sorella. Intesse rapporti, trova sponsor e finanziamenti pubblici e privati, grazie ai quali tiene in piedi un’attività culturale con serate tutte gratuite arrivata alla quinta stagione, con oltre 30 mila presenze ogni anno.   

L’ALTRA POMODORO è la magistrata che viene spesso indicata dai giornali come candidata ad alte cariche: ministra della giustizia in più occasioni e perfino sindaco di Milano, nel 2010, prima che si lanciasse Giuliano Pisapia. Non si ricordano sue inchieste o processi memorabili. Più noti, gli incarichi fuori dal palazzo di giustizia. È stata vicecapo di gabinetto del ministro Virginio Rognoni. Poi capo di gabinetto dei ministri della giustizia Claudio Martelli e del suo successore Giovanni Conso, fino al settembre 1993, proprio nei mesi cruciali delle stragi di mafia. Per questo nel
2002 è stata sentita dal magistrato fiorentino Gabriele Chelazzi e poi dai pm palermitani che hanno indagato sulla trattativa Stato-mafia. Racconta che c’era una “sostanziale estraneità del gabinetto del ministro dai percorsi decisionali”, quando c’era sul piatto la riconferma del carcere duro ai mafiosi (uno degli oggetti della trattativa). Le scelte erano fatte dal ministro e dal vertice del Dap (il Dipartimento amministrazione penitenziaria) con un “canale di comunicazione che non coinvolgeva anche il gabinetto”. Per il resto, Pomodoro “non ha ricordo”, dicono i verbali, “non è in grado di offrire un contributo di conoscenze” e “niente ha saputo”, per esempio, degli incontri tra il vicecapo del Dap Francesco Di Maggio e il colonnello Mario Mori (che stava trattando con l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino).   
Ora Livia Pomodoro è stata citata come teste dai pm di Palermo nel processo sulla trattativa:
“Deve riferire quanto a sua conoscenza nella sua qualità di capo di gabinetto del ministro della giustizia sulla vicenda della mancata proroga di oltre 300 decreti di 41 bis nel novembre 1993”. Si tratta dei 373 provvedimenti di carcere duro per detenuti di “media pericolosità” da non rinnovare nel novembre 1993, secondo le indicazioni del direttore del Dap Adalberto Capriotti, per dare un segnale “positivo di distensione”. La nota di Capriotti fu consegnata al ministro Conso da Pomodoro: “Il ministro mi diede la direttiva di attendere ulteriori aggiornamenti, che avrebbero dovuto essere forniti dal vicecapo Di Maggio”. Un altro punto che sarà chiamata a chiarire al processo riguarda l’intercettazione del 25 novembre 2011 in cui Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dice all’ex ministro Nicola Mancino di aver visto anche Pomodoro nella stanza di Liliana Ferraro (direttore dell’ufficio Affari penali) in cui Di Maggio si scrisse da solo il decreto presidenziale che lo nominava vicecapo del Dap (senza averne i requisiti). “Quelli erano i tempi in cui c’era la Pomodoro, c’era la Ferraro, c’era Conso... Allora che cavolo è successo?”. Chissà se, a testimoniare a Palermo, Livia Pomodoro ci andrà da presidente del Tribunale o da ministro.


Gianni Barbacetto e Sandra Rizza (Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2014)







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