IL MOVENTE DELL’ATTENTATO potrebbe essere ricondotto al fatto che Costanzo lavorava alla Fininvest. Ma per i giudici nelle sentenze non c’è spazio per messaggi a Berlusconi, che allora non era ancora in politica. Secondo la sentenza di condanna contro Riina, Bagarella, Graviano e Messina Denaro che ordinarono quell’attentato, i boss volevano uccidere davvero. Nessun avvertimento: i due presentatori televisivi devono la loro vita a una Mercedes, o meglio al loro autista. I pentiti hanno raccontato che l’autobomba posizionata sul tragitto non saltò in aria nel momento giusto per un contrattempo: i mafiosi attendevano – come ogni sera – una Alfa Romeo 164. Invece quel giorno Costanzo e la compagna si trovavano, per via di un malanno del solito conducente, su un’altra auto: la Mercedes avrebbe salvato la vita alla coppia, all’autista e alla loro scorta privata. Sicuramente Costanzo doveva morire perché aveva osato mettersi contro la mafia pubblicamente. Prima aveva organizzato la maratona televisiva con
Michele Santoro dopo l’uccisione di
Libero Grassi, l’uomo che si era ribellato al racket. Poi aveva augurato la morte ai boss che fingevano di avere il tumore per andare in clinica. Infine, aveva esultato per l’arresto di
Totò Riina nel gennaio 1993. Era troppo, ha detto il pentito
Giovanni Brusca. Però, quel tentativo di strage assume un significato diverso da una banale vendetta, se l’intuizione investigativa dei pm sulla lettera si rivelerà corretta. A rileggerla oggi, come stanno facendo i magistrati palermitani che indagano sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, potrebbe essere l’annuncio dell’esplosione della Fiat Uno bianca di quella notte di venti anni fa. E anche l’annuncio della seconda fase della strategia della tensione di Cosa nostra, che sarà chiusa solo nel gennaio del 1994 con la decisione di non far saltare in aria cento carabinieri all’Olimpico a Roma, nonostante la Lancia Thema con l’esplosivo fosse già lì pronta all’uso. L’attentato a Costanzo di cui oggi ricorre l’anniversario è lo snodo che lega il 1992 al 1993, le stragi contro Lima, Ignazio Salvo e i magistrati Falcone e Borsellino a quelle contro i monumenti. Anche perché altri tre attentati sarebbero stati annunciati, secondo l’ipotesi investigativa dei pm di Palermo, dalla lettera. Non per il suo contenuto, bensì per l’elenco dei destinatari, che oltre a Costanzo includeva il vescovo di Firenze, città dove esplode due settimane dopo l’autobomba che ucciderà cinque persone vicino agli Uffizi; poi il Papa, il cui vicario
Camillo Ruini sentirà saltare il letto per l’esplosione di San Giovanni del 28 luglio; e il vescovo di Palermo, dal quale dipendeva
don Pino Puglisi che il 15 settembre del 1993 sarà ucciso a Brancaccio, quartiere dei fratelli Graviano, protagonisti di tutti gli attentati. Ovviamente è solo una pista investigativa che i pm
Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene stanno percorrendo. Ma una cosa è certa: quello che i familiari chiedevano a Scalfaro in quella lettera, grazie ai provvedimenti del ministro
Giovanni Conso, si realizzò. I familiari dei detenuti apostrofavano Scalfaro così: “Lei dovrebbe vergognarsi” perché permetteva ai secondini delle carceri e “in particolare quelli di Pianosa” di comportarsi come “teppisti della peggior specie”. Poi gli intimavano di “togliere gli squadristi al servizio del Dittatore Amato”. E di lì a poco, il 4 giugno del 1993,
Niccolò Amato effettivamente venne rimosso d capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, e sostituito da un magistrato molto più morbido,
Adalberto Capriotti. Appena insediato il nuovo capo del Dap, inviò un segnale di distensione e nei mesi successivi non rinnovò ben 474 decreti che disponevano l’isolamento al regime del 41 bis per altrettanti detenuti. L’attentato a Maurizio Costanzo quindi si inserirebbe in questa strategia. A metà tra la lettera di febbraio 1993 e il cambiamento ai vertici del Dap di giugno e le successive revoche, avvenute tra l’estate e novembre. La seconda fase della trattativa, dopo quella avviata nel 1992 con l’uccisione di
Salvo Lima, inizia lì, in via Fauro. Alle 21 e 40 salta in aria la Fiat Uno bianca imbottita con un centinaio di chili di una miscela esplosiva costituita da tritolo, T4, pentrite e nitroglicerina dagli uomini del commando guidato da
Matteo Messina Denaro e dai fratelli Graviano, incaricati da
Leoluca Bagarella, reggente della ‘supercosa nostra’ creata da Totò Riina.
L’ORGANIZZAZIONE del delitto inizia più di un anno prima, addirittura prima della strage di Capaci, nel marzo del 1992. In quel periodo un commando guidato da Matteo Messina Denaro, pedina a lungo Maurizio Costanzo a Roma. A un certo punto però l’attentato viene accantonato e si preferisce colpire in Sicilia. A marzo cade Salvo Lima. Poi a maggio l’attentatuni di Capaci. Ed è allora, secondo la ricostruzione dei pm palermitani, che i Carabinieri del Ros guidati dal colonnello
Mario Mori si fanno sotto chiedendo a
Vito Ciancimino cosa si può fare. Quello è l’inizio della prima fase della trattativa. Riina vuole realizzare il papello con le sue richieste, dalla riforma della legge sui pentiti alla chiusura delle carceri di Asinara e Pianosa. Per eliminare l’unico ostacolo al suo disegno di “fare la guerra per fare la pace”, il 19 luglio Riina elimina anche
Paolo Borsellino. Il 17 settembre 1992 tocca all’esattore di Salemi, considerato dai pm palermitani vicino ad Andreotti e mafioso,
Ignazio Salvo. Tre giorni prima Bagarella e Messina Denaro cercano di uccidere anche il capo della Squadra Mobile di Trapani
Calogero Germanà, ma lui fugge in mare e sfugge al fuoco nemico. Per un po’ le armi tacciono. Fino al 14 maggio del 1993. L’esplosione di via Fauro provoca 24 feriti, non gravi. Poco dopo alla redazione dell’ANSA giunge una telefonata: un uomo con l’accento meridionale sostiene che la bomba è opera della “Falange Armata”. Una sigla che ricomparirà nelle bombe di Firenze, Roma e Milano, in via Palestro. La lettera dei familiari che precede l’esplosione e quella telefonata della Falange Armata che la segue sono i due elementi dai quali riparte la Procura di Palermo per comprendere quello che è accaduto venti anni fa a via Fauro.
Marco Lillo (tratto da: Il Fatto Quotidiano)