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Stato contro Stato, nuovo attacco alla Procura di Palermo PDF Stampa E-mail
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Scritto da Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari   
Venerdì 22 Marzo 2013 17:49
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di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari - 22 marzo 2013

Azione disciplinare contro Di Matteo e Messineo a due mesi dall'inizio del processo Trattativa
Quanta paura fa il processo sulla Trattativa Stato-mafia? Una domanda che appare legittima visti i continui attacchi subiti da chi a quell'inchiesta ha lavorato per anni. Nel giro di poche settimane sia Antonio Ingroia, oggi magistrato in aspettativa e leader di Rivoluzione Civile, che Antonino Di Matteo, pm titolare dell'inchiesta, hanno ricevuto gli avvisi di un procedimento disciplinare nei loro confronti. E lo stesso è stato consegnato al procuratore di Palermo, Francesco Messineo. Le motivazioni, guarda caso, sono in qualche modo legate a quelle famigerate intercettazioni tra l'ex ministro degli Interni, Nicola Mancino, ed il Capo dello Stato Napolitano, non ancora distrutte solo grazie al “disperato tentativo” di Massimo Ciancimino (imputato al processo sulla trattativa) che ha presentato ricorso in Cassazione per far sì che venga rispettato il diritto di difesa (la valutazione nel merito si celebrerà il 18 aprile ndr).

Il primo attacco si è avuto il mese scorso con il pg della Cassazione Giancarlo Ciani, che ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti di Ingroia per aver “vilipeso” la Corte Costituzionale con alcuni suoi commenti relativi alla sentenza sul conflitto di attribuzione sollevato da Napolitano. A questa si è aggiunta la notizia dell'integrazione richiesta dal ministro della Giustizia Paola Severino che, ad un anno di distanza, contesta all'ex pm di aver “leso l'immagine della magistratura” per aver commentato l'annullamento con rinvio della condanna a Marcello dell'Utri a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ieri la nuova azione nei confronti di Nino Di Matteo e Messineo con motivazioni che appaiono pretestuose e volte proprio a screditare l'operato della Procura palermitana.

Ancora una volta è il pg Ciani a “sferrare il colpo”. Rifacendosi alla sentenza della Consulta sul conflitto di attribuzione, questi sostiene che il pm ha commesso violazioni “di particolare gravità perché la discrezione delle comunicazioni del Capo dello Stato è coessenziale al suo ruolo nell’ordinamento costituzionale”. Di Matteo sarebbe così colpevole di avere ammesso, “seppure non espressamente’’, in un’intervista a Repubblica, l’esistenza delle quattro telefonate tra il Capo dello Stato e l'allora indagato (oggi imputato al processo) Nicola Mancino. Nell'intervista, risalente al 22 giugno scorso, al pm veniva chiesto se vi fossero conversazioni che riguardavano direttamente Napolitano e il magistrato rispose che negli atti depositati non ve ne era traccia e che “questo significa che non sono minimamente rilevanti”. E alla successiva domanda se le stesse sarebbero state distrutte ha aggiunto che la Procura avrebbe applicato la legge in vigore, ovvero che “Quelle che dovranno essere distrutte con l’instaurazione di un procedimento davanti al gip saranno distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti”. Parole che, di fatto, non confermano alcunché e non smentiscono, anche se il giorno prima era stato il sito internet Panorama.it a parlare per primo delle registrazioni delle telefonate Napolitano-Mancino. Appare quindi evidente l'intento da parte del pg di “colpire” a prescindere l'operato del pm palermitano. Ciani, va ricordato, è lo stesso giudice che, su input del Quirinale, nell'aprile 2012 chiese all'allora procuratore nazionale antimafia Piero Grasso di istituire un “coordinamento” tra le Procure di Palermo e Caltanissetta, accogliendo un desiderio che lo stesso Mancino aveva espresso telefonicamente al consigliere giuridico di Napolitano, Loris D’Ambrosio.
Adesso, sia Di Matteo che Messineo dovranno scegliere un difensore (solitamente un magistrato, ma può essere anche un avvocato) e predisporre le repliche all'iniziativa del pg. Che si concluderà con un pronunciamento di condanna o di proscioglimento da parte della sezione disciplinare del Csm.
Csm che, sempre ieri, ha messo spalle al muro Antonio Ingroia. L'ex candidato premier se vorrà tornare in servizio, dopo l'aspettativa elettorale, dovrà svolgere il proprio ruolo come giudice nell'unica città dove non è stato candidato, ovvero Aosta, anche se i posti sono già coperti. Una “scelta obbligata” per la terza commissione del Csm. Una circolare del 2009 stabilisce che i pm che si candidano, al rientro, svolgano per 5 anni funzioni giudicanti. La proposta di ieri è stata votata da Rossi (Area) Pina Casella (Unicost) e Annibale Marini (laico Pdl). Assente Bartolomeo Romano (laico Pdl) perché doveva prendere un aereo. Si sono astenuti Alberto Liguori (Unicost) e Alessandro Pepe (Magistratura Indipendente) perché in disaccordo con un regolamento interno del Csm che prevede, sempre per i magistrati ex candidati politici, il divieto di ricoprire la funzione di pubblico ministero. Ma restano tra gli addetti ai lavori diverse “Perplessità giuridiche”, come quelle espresse dal consigliere Antonio Racanelli (Mi) convinto che Ingroia “possa fare il pm ad Aosta”.
Lo stesso Ingroia ieri ha dichiarato: ''Aspetto la decisione del Plenum e poi si vede... Ma non è una punizione, hanno applicato la legge'', anche se la sensazione resta tale. Se a questa si aggiungono i vari procedimenti disciplinari che sono seguiti alla decisione della Consulta sul conflitto di attribuzione diventa quasi certezza che vi sia una parte di Stato che, alle porte del processo più importante degli ultimi vent'anni, voglia contribuire ad isolare sempre più i magistrati. E questo accade mentre l'Italia viene distratta dalla mancata governabilità e mentre un partito è pronto a scendere nelle piazze contro la magistratura. Un partito che detiene il record di candidati indagati, dalla corruzione all'abuso d'ufficio, e che solo in extremis ha rinunciato a due indagati per mafia come Marcello Dell'Utri e Nicola Cosentino. Ed è contro queste persone che si dovrebbe procedere per “vilipendio”. Vilipendio contro la Costituzione e quel principio inviolabile che ci rende tutti uguali di fronte alla legge. E' questo che l'Italia dovrebbe ricordare e per cui non si può più restare a guardare. E' il momento di schierarsi a difesa di quei magistrati che con coraggio hanno raccolto il testimone di Falcone e Borsellino cercando di far luce su quegli attentati. Perché è solo grazie a questo coraggio che sul banco degli imputati vedremo insieme mafiosi e politici, due facce della stessa moneta che hanno reso buia la storia del nostro Paese. 

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Da: AntimafiaDuemila.com

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