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La mafia sposta 300 mila consensi. Ecco come voteranno i boss in Sicilia PDF Stampa E-mail
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Scritto da Enrico Bellavia   
Lunedì 18 Febbraio 2013 22:15
di Enrico Belllavia - 17 febbraio 2013
ALLA fine faranno come hanno sempre fatto, sceglieranno chi vince e punteranno su chi si lascerà avvicinare. Ha funzionato sempre, funzionerà anche ora. Non ci sono geografie né fisiche, né politiche per Cosa nostra. I candidati sono autobus sui quali salire senza pagare neppure il biglietto, arrivare a destinazione, scendere e ripartire ancora con un altro mezzo per una nuova corsa. Gli steccati ideologici, resistono solo negli enunciati. E nel Trapanese, Matteo Messina Denaro ha già detto ai suoi di non guardare al colore quando di mezzo ci sono gli affari.

Neppure il mercato del voto che c'è e funziona sotto traccia come un mercato parallelo, figlio di un welfare di sussistenza, malato e drogato, alla fine spiega fino in fondo come si muova la mafia in questa tornata elettorale. Il granaio berlusconiano, resta l'area di riferimento. Contatti, relazioni, rassicurazioni, opportunità, fanno di front man e gregari partner dai quali attendersi un ritorno di utilità. Ma il sistema elettorale complica molto le cose.

Intanto perché non ci sono le preferenze. Non ci sono uomini sui quali convogliare messe di voti, ma gruppi e coalizioni che hanno già deciso le teste di serie del torneo. Acchiappavoti o nomi da vetrina che poi sul territorio siglano accordi diretti, concludono affari fondati sulle promesse ma raramente, almeno in Sicilia, pagano nelle mani dei boss il prezzo del consenso.

La posizione in lista determina una ragionevole aspettativa di elezione e nel chiuso delle segreterie chi aveva un peso da spendere ha ottenuto la piazza d'onore. Magari giocando sui tavoli delle liste pilota e di quelle satellite. Dal Pdl a Grande Sud, passando per il Cantiere Popolare-Pid.

LA SFIDUCIA

Diceva il pentito Antonio Calderone: "La mafia è una prostituta che si offre a chi paga di più". E non c'è prezzo più alto di una promessa d'affari futuri. Solo che adesso le promesse non bastano più e così con la disgregazione dei partiti tradizionali, con la demolizione di un blocco granitico di potere che garantiva sempre e comunque, anche padrini e picciotti, aspettano di vedere la merce prima di pagare. Cosa nostra non si fida più. Sogna di tornare al passato, quando gli uomini politici li fabbricava in casa, uomini d'onore da mandare in Parlamento a rappresentare la lobby delle coppole. Gente pronta a piazzare l'emendamento giusto, a intercedere con gli uomini giusti. Ma il clima è ostile e le forze politiche guardinghe per necessità. Non mancano i proclami e le strizzatine d'occhio, i programmi garantisti, gli annunci che suonano come musica per le orecchie di chi è in carcere, ma neppure questo basta a scaldare fino in fondo il cuore dei boss. L'operazione del 1987, lo spostamento in blocco del voto dalla Dc al Psi è un lontano ricordo. Così come la seduzione per gli argomenti dei radicali, buoni per chi in galera ci sta da povero cristo che non da padrino con nessuna possibilità di amnistia. Anche i più pessimisti, del resto, concordano sull'assenza di una direzione strategica unitaria per Cosa nostra, capace di elaborare un piano organico.

UN MILIONE DI VOTI

Quanto pesi il voto di mafia è difficile dirlo. In Commissione antimafia, due anni fa, il procuratore di Palermo Francesco Messineo calcolò che 94 famiglie, su 29 mandamenti spostano 300 mila voti. Il pentito Antonino Calderone calcolò solo per Catania 180 mila voti sicuri. Il pentito Enzo Brusca disse che nel suo paese, San Giuseppe Jato, ne manovrava mille. E, dando per buona la proiezione su scala regionale, si arriva anche al milione di voti che puzzano di mafia. Dalle intercettazioni, non molte, che hanno documentato l'atteggiamento delle cosche nei confronti dei politici, emerge chiaro e netto il disprezzo per la politica, un affare sporco, inevitabile per i boss che mal sopportano chiacchiere e promesse. "Ora i discursi s'hanno a fari chiari", ripeteva un mammasantissima. Come dire: accordi precisi, garanzie puntuali per chi chiede di aprire il forziere con il pacchetto delle schede targate mafia. Ma chi per una competizione elettorale nazionale con il porcellum è in grado di siglare accordi del genere con la certezza di poterli rispettare?

Altra cosa le elezioni locali, lì il patto è immediato, l'accordo verificabile e l'incasso del favore promesso negoziabile nello spazio di poche settimane. Io ti voto, tu mi dai l'appalto. Io ti scelgo, tu mi dai un pacchetto di assunzioni, io ti porto lì, tu disegni subito una variante urbanistica che spiani la strada ai miei interessi.

LE CARCERI

Così, nelle mani di chi indaga, al netto dei documentati rapporti d'affari, restano come mosche bianche quei politici che hanno messo mano al portafoglio per scucire denaro contante e assicurarsi un pacchetto di voti, ma sono quasi sempre elezioni amministrative o regionali a regalare risultati del genere. Per il voto di scambio su base nazionale, bisogna risalire indietro nel tempo, al mercato delle preferenze o alla rivoluzione del 1994, quando le aspettative di una Cosa nostra con la testa rivolta ancora alla minaccia di nuove bombe, si trasferirono in blocco sulle magnifiche sorti di un partito che prometteva un'alba di impunità. Il palpabile entusiasmo di allora si è assopito. Sintetizzato in quel "Iddu pensa solo a iddu", che è la summa del pensiero di chi si attendeva un risultato utile dalle leggi ad personam. Così gli sforzi dei boss si sono concentrati sulle amministrazioni, più permeabili perché prossime. Il Parlamento resta lontano e il federalismo degli interessi locali trova pieni riscontri sul territorio.

Termometro sensibile su ciò che accade nel mondo criminale, il carcere ha scelto l'astensionismo all'ultima tornata: 46 votanti su 7050 detenuti, 1 su 1300 al Pagliarelli. Ma hanno ragione i radicali a far notare che l'equazione tra celle e mafia è azzardata e che l'astensionismo è un dato costante, complice la difficoltà dell'esercizio di voto nelle carceri, tanto che su 30 mila aventi diritto non ha mai votato di recente più del 10 per cento. Tuttavia anche da lì arriva il segnale che Cosa nostra non sta scegliendo, non adesso. Per sfiducia o per calcolo? Neppure attenti osservatori sanno dirlo con esattezza. E c'è la preoccupazione di non servire su un piatto d'argento la certezza di avere scelto questo o quel candidato, di non bruciare i propri referenti.

Per chi, tra mille difficoltà, deve gestire questa fase di transizione dell'organizzazione, le preoccupazioni sono due: chi è rimasto dentro e scalpita e i soldi. Il 41 bis, la revisione dei processi, in definitiva il papello di Riina, è ancora sul tavolo di chi vuol comprare la fiducia di Cosa nostra e non solo. E poi ci sono i soldi, le opportunità di investimento, l'impossibilità di tracciare il denaro, le promesse di nuovi condoni. Questo interessa molto l'organizzazione.
Votata a preservare gli affari oltre il limite delle libertà personali.

PREZZI STABILI

Ma ridurre tutto alla compravendita del consenso è un abbaglio. "Sciocchezze, regalini - racconta Gaspare Mutolo - le cose che importano sono i grandi affari". I galoppini, di sicuro, sono al lavoro, c'è il prezziario, 50 euro a voto, buoni spesa o buoni benzina agli amici degli stiddari, come appurato a Gela alle comunali del 2010, e il sistema della scheda ballerina, come per le ultime elezioni amministrative di Palermo e i telefonini per certificare che il voto è stato espresso come richiesto e passare a ritirare il compenso, come sospettato, sempre nel capoluogo, nell'ambito dell'inchiesta che ha inguaiato due presidenti di seggio.

I prezzi hanno risentito della crisi e sono rimasti stabili al 2006, quando per 15 mila euro, sulla piazza di Brancaccio ci si poteva assicurare un pacchetto di 300 preferenze sicure. E anche a Milano il prezzo è stabile se Domenico Zambetti, assessore di ndrangheta al Pirellone ha pagato 200 mila euro per 4000 voti.

Ma la pista dei soldi offre un indotto economico elettorale incapace di prospettare una lettura generale dell'orientamento di voto dell'organizzazione. I galoppini si muovono nel sottobosco, hanno collegamenti con le famiglie di mafia e chi gestisce la manovalanza criminale controlla e vigila anche su questo, ma che le maglie del voto di scambio tradizionale siano anche giuridicamente strette per ricomprendere ciò che sta accadendo lo sanno benissimo anche i giudici.

IL REATO IMPOSSIBILE

Il 416 ter è praticamente un reato impossibile da contestare se non trovi i soldi sul tavolo in cambio dei voti. È accaduto, certo, ma non così frequentemente. L'ultimo ad esserci incappato è l'Udc Nando Sorbello ex sindaco di Melilli nel Siracusano che avrebbe negoziato il consenso con il clan Nardo di Lentini per le regionali del 2006 e del 2008. E con lui anche all'ex sindaco pd di Augusta Massimo Carruba che avrebbe ottenuto nel 2008 quei 297 voti in più per battere l'avversario del centrodestra.

E c'è Raffaele Lombardo che per far eleggere il fratello nel 2008 non avrebbe disdegnato incontri e promesse ai boss. Ma le prove gudiziarie esigono i soldi o quantomeno, dopo un'innovativa pronuncia della Cassazione dell'agosto scorso, quantomeno la promessa di arricchimenti futuri. Non basta, dicono i tanti che vorrebbero una postilla al codice: denaro o "altra utilità" per certificare che basti la disponibilità a favorire Cosa nostra per trascinare il politico in ceppi. E l'esperienza insegna che non è stato sufficiente neppure lo scambio di soldi per vedere condannato Antonello Antinoro per voto di scambio aggravato dalla mafia: avrebbe consegnato il denaro a un medico per la propaganda elettorale che, a sua volta, lo avrebbe girato ai boss, ma a "sua insaputa". Un po' quello che punta a dimostrare Lombardo: avrebbe sì incontrato il boss ma ignaro che fosse tale e soprattutto punta a dire: mai ricompensato chicchessia. Dopo un dibattito che ha spaccato la Procura, anche per andare in giudizio contro l'ex presidente della Regione Salvatore Cuffaro, si è scelta la strada del favoreggiamento aggravato, concentrandosi sul vantaggio all'organizzazione dato dal politico con la trasmissione di informazioni sulle indagini che esplorare il terreno incerto del ritorno di utilità alla mafia attraverso lo scambio consenso-affari.

L'EMBLEMA TRAPANI

Così si finisce per non poter prescindere dalle dinamiche territoriali. Quanto sia variegato il panorama lo dimostra anche la storia di Ciro Caravà, sindaco "antimafia" pd di Campobello di Mazara che mandava le sue scuse al boss Natale Bonafede, per avere riutilizzato a fini sociali un bene confiscato. E ha dovuto rinunciare a correre per Roma anche l'europarlamentare udc Eleonora Lo Curto, incappata a Marsala in un'accusa di voto di scambio semplice, sempre per le elezioni amministrative. David Costa, ex assessore regionale udc è stato assolto dalla mafia ma condannato a 3 anni e 8 mesi per voto di scambio aggravato sempre con la cosca di Natale Bonafede. Figlio d'arte, Costa ha bruciato la sua carriera politica. Appena appannata quella di un altro figlio d'arte Pizzo, il cui padre Paolo, potente ex assessore socialista degli anni ruggenti, ha beneficiato della prescrizione per un aiutino al figlio Francesco nel 2001: l'equivalente di 40 mila euro per 1000 voti.

Trapani e il Trapanese, del resto rappresentano una spia della disinvoltura con la quale hanno imparato a muoversi i colonnelli di Messina Denaro. Arraffano soldi se ce ne sono, ma puntano ai grandi affari. A Trapani neppure l'operazione di taglio degli impresentabili è riuscita. Il senatore Antonino D'Alì è rimasto in lista da imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. E' stato risparmiato dal colpo di penna che ha cassato i nomi dei Cosentino e dei Dell'Utri. Angelino Alfano non è riuscito a farlo fuori e il senatore corre sotto le insegne pidielline, sicuro di farcela anche stavolta.

È come se l'area del Trapanese fosse un mondo a parte, sfuggito alle regole che pure ci si era dati. Il bel mondo della Cosa nostra che vuol tornare all'antico. Perché, come spiega un collaboratore di giustizia: "Noi non vendiamo voti, compriamo persone o le facciamo come ci piace. Per il resto, lasciamo che scelga la mafia e poi tra i prescelti siamo noi di Cosa nostra a selezionarci i nostri".


Enrico Bellavia (La Repubblica, 17 febbraio 2013)








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