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Roberto Soffritti sindaco di Ferrara ai tempi dello scandalo del Palazzo degli Specchi PDF Stampa E-mail
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Scritto da Enzo Guidotto   
Domenica 27 Gennaio 2013 19:55
Flash di stampa attuali
Roberto Soffritti, primo cittadino di Ferrara «dall'83 al '99, poi Onorevole della Repubblica (in quota Diliberto), infine Tesoriere (del Pdci prima e della Federazione della sinistra poi), ora Roberto I° d'Este vorrebbe ritentare la scalata a Montecitorio, sperando stavolta nel vessillo della Lista Ingroia».
«Ma il nome dell’ex sindaco non comparirà nelle schede elettorali dell’Emilia Romagna: per la sua elezione ci si affida ai voti provenienti da Veneto, Liguria e Calabria. Sperando che non abbiano mai seguito le cronache ferraresi».
Come mai? La stampa continua a ricordarlo come il «garante del patto di ferro tra il Pci ferrarese e la Dc di Cristofori, sponsor dell' ormai fallita Coopcostruttori, ostetrico di un aborto in vetrocemento chiamato "Palazzo degli Specchi", centro direzionale costruito dal cavaliere del lavoro catanese Gaetano Graci».
All'epoca, Soffritti incontrava Graci nel suo ufficio «mentre tutti i giornali nazionali riportavano il coinvolgimento dell'imprenditore catanese in inchieste di mafia».
«I lavori vennero affidati alla CoopCostruttori di Giovanni Donigaglia per conto dei costruttori catanesi Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro, titolari della "Società Estensi", ma nel 1989, poche settimane dopo la chiusura del cantiere, da un dossier della Criminalpol emersero legami tra gli imprenditori siciliani e la criminalità mafiosa e tutto si bloccò. Gaetano Graci fu arrestato con l'accusa di presunti rapporti col clan di Nitto Santapaola e colpito dal sequestro giudiziario di proprietà per un valore attorno ai 500 miliardi di lire. Il "gigante" di vetro e cemento agonizza da 23 anni nella periferia sud-ovest di Ferrara».

Flash di ricordi lontani
Di fronte all'inciucio ante litteram PCI-DC, lo scandalo fu denunciato a chiare lettere da due consiglieri comunali MSI, che furono denunziati ma alla fine assolti. Uno di questi era Guido Menarini, avvocato.
Silvana Piccinini, giornalista bolognese, iscritta al PCI, strappò la tessera del partito e creò un gruppo di impegno civico vicino al settimanale "Avvenimenti" per gridare allo scandalo e dare una mano ai due consiglieri. Poi Silvana organizzò due convegni sulla mafia. Al primo, il 12 ottobre del 1990, partecipò anche Leoluca Orlando, leader del "Movimento per la Democrazia - La Rete", che incoraggiò Menarini ad andare avanti senza guardare in faccia nessuno. Orlando non può non ricordare la vicenda.
Successivamente, attraverso uno scambio di idee con me, Silvana ne realizzò un altro il 12 novembre dello stesso anno in una sala del Castello Estense: ospiti d'onore PAOLO BORSELLINO, procuratore a Marsala e il giudice CLAUDIO NUNZIATA, magistrato coraggioso e intransigente, definito da Francesco Cossiga, «un delinquente comune». Ma a quel tempo le ingiurie di questo tipo, espresse dall'inquilino di turno del Quirinale erano ritenute dai destinatari e dalla società civile … "medaglie al valore".
Io al convegno ci andai e finii in prima fila. Non avevo "programmato" l'idea di intervenire ma, tirato in ballo da PAOLO con la sua solita bonaria e benevola ironia, fui costretto a parlare.  «Su questo - disse a un certo punto, pur sapendo che non so improvvisare - potrebbe aggiungere qualcosa il professor Guidotto qui presente… che di certe cose se intende». Fui così … "costretto" a parlare e lo feci a voce alta, anzi molto alta, raccontando al pubblico che appariva incredulo quello che per opportunità da altri non era stato detto: il potere reale a Catania e altrove di Gaetano Graci e company, le loro altolocate protezioni politiche e i dettagli sui motivi che avevano giustificato alcuni anni prima l'iniziativa del questore della città etnèa Luigi Rossi di chiedere nei loro confronti il provvedimento di soggiorno obbligato lontano dalla Sicilia, essendo ritenuti in loco soggetti socialmente pericolosi perchè notoriamente collusi con mafiosi catanesi legati ai corleonesi. Poi seppi che in sala c'erano gli avvocati di Graci che prendevano appunti. Ma non ci fu controffensiva. D'altra parte ero in possesso di una copia della richiesta avanzata dal questore Rossi.
 Dopo il convegno andammo in pizzeria. All'epoca avevo iniziato a scrivere un libro pubblicato nel dicembre 1992 con il titolo "Mafia"  e presentato nel successivo mese di gennaio, presente Salvatore Borsellino.
A tavola, feci presente a PAOLO che ero alla ricerca di una definizione del fenomeno mafioso, valida anche sotto l'aspetto storico. Che te ne pare - gli chiesi dopo aver illustrato varie ipotesi - se lo definisco "un potere economico e politico con la violenza"?  «Ottimo - rispose - però ora manciàmuni sta pizza, masinnò s'arrifridda! ». E così fu: misi la frase come sottotitolo del libro, citai la vicenda del "Palazzo degli Specchi" ed inserii quasi integralmente la richiesta di invio al confino dei "cavalieri dell'Apocalisse mafiosa", come li chiamava Pippo Fava.
Per la cronaca, devo precisare che a quel tempo non avevo mai incontrato il questore Rossi. Negli anni successivi divenne capo della Criminalpol nazionale, poi prefetto e prestò servizio anche a Palermo. In seguito venne nominato sottosegretario al Ministero dell'Interno. Una volta lo incontrai a Palermo in occasione di una manifestazione organizzata per ricordare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Gli regalai il libro e - non conoscendo ovviamente il contenuto - mi ringraziò con un certo distacco. "Chissà cosa avrà scritto questo professorino in 600 pagine" avrà pensato. Ma a lui e al suo rapporto avevo dedicato ben 16 pagine, per cui l'indomani il ringraziamento fu molto caloroso e seguito da un abbraccio. Abbraccio che ripetiamo sempre quando ci incontriamo in manifestazioni e convegni, nei quali generalmente facciamo … "coppia fissa".

ENZO GUIDOTTO (27 gennaio 2013)



Riproduciamo di seguito un estratto del libro MAFIA: UN POTERE ECONOMICO E POLITICO ESERCITATO CON LA VIOLENZA (Edizioni “La Galleria”, dicembre 1992) scritto dal Prof. Enzo Guidotto (nella foto sotto) attraverso cui è possibile mettere a fuoco la figura dell'imprenditore catanese Gaetano Graci

I "Cavalieri dell'Apocalisse mafiosa" di Catania: le mani sul Veneto — L’eco della vicenda sembrava essersi spenta quando la notizia di un altro scandalo finisce nelle prime pagine di tutti i giornali. Il Gazzettino: «Da Venezia un dossier su appalti inquinati dalla mafia». Corriere della Sera: «Mafia, politica, affari: nuovo dossier. Un rapporto della magistratura veneziana parla di onorevoli e ministri in contatto con gli imprenditori catanesi. Graci, Costanzo e Rendo coprono il boss Santapaola in cambio di favori». La Repubblica: «Dossier dei carabinieri sull’Italia dei favori: “Pronto, se mi aiuti per l’appalto…”». Il Mattino di Padova: «Un’inchiesta su mafia e appalti nel Nordest». Vita del popolo, settimanale della diocesi di Treviso; «Nel Veneto i tentacoli della mafia procurano appalti con la tangente». La Nuova di Venezia: «Le mani sul Veneto: Carmine Mancuso denuncia: “Le indagini sono ferme”».
Di cosa si trattava? Nel corso di un convegno organizzato a Peschiera dal “Movimento per la democrazia La Rete”, Carmine Mancuso, membro della Commissione antimafia del Parlamento Regionale Siciliano, sollecitato da alcune domande sulla “verità nei cassetti”, aveva parlato dell’esistenza in alcune regioni del Nord, ed in particolare nel Veneto, di «società gestite da imprese di comodo i cui veri ispiratori sono grossi imprenditori siciliani, nella fattispecie catanesi, da tempo nel mirino di indagini relative a presunte attività mafiose: lo scopo è l’acquisizione di grossi appalti attraverso società, in alcuni casi anche a partecipazione statale, e l’effettuazione di grosse operazioni finanziarie che riguarderebbero la costruzione di edifici da destinare ad uso pubblico con evidenti casi di corruzione e di intrecci tra politica e affari».
«Se è vero — concluse Mancuso — che tutto ciò è già stato oggetto di indagini da parte di alcuni apparati investigativi, sembra che le relative inchieste giudiziarie, cui anche la procura di Palermo sarebbe stata interessata, si siano arenate e allora sarebbe opportuno che il procuratore del capoluogo siciliano Pietro Giammanco facesse mente locale».
In realtà, un’inchiesta in tal senso c’era stata. L’aveva condotta il Nucleo Carabinieri di Polizia Giudiziaria di Venezia al comando del tenente colonnello Luigi De Sanctis ed i suoi risultati erano stati consegnati al sostituto procuratore Antonio Fojadelli nell’ottobre dell’89. Nel rapporto, gli investigatori affermarono proprio di trovarsi «di fronte a dei rapporti politico-affaristico-mafiosi non più circoscritti in determinate zone dell’Italia ma che attraversano la nazione dalle Alpi alla Sicilia e che costituiscono una linfa per l’espansione e la lievitazione di illeciti interessi e di conseguenza per le stesse fortune politiche».
Chi tirava le fila del complesso meccanismo sul quale si erano concentrati i riflettori della magistratura? Le 137 cartelle del documento, contenenti molte registrazioni telefoniche, hanno come protagonista Gaetano Graci. Chi è? Uno dei tre “cavalieri del lavoro” di Catania nei confronti dei quali, fra il 1987 e il 1988, il questore della città etnea Luigi Rossi, in base alla Legge La Torre-Rognoni aveva chiesto alla Procura della Repubblica l’applicazione delle misure di prevenzione sia di carattere patrimoniale, riguardanti il sequestro di beni e delle imprese, sia di carattere personale del soggiorno obbligato in località lontana dalla zona d’influenza.

I «Cavalieri dell’Apocalisse» - Come mai? Gaetano Graci — si legge nella richiesta del questore, inoltrata il 13 febbraio ’87, prot. 32425/85MP — «calza a pennello la figura aggiornata e rivista del mafioso dei nostri tempi, che inserito in un contesto imprenditoriale ha cercato e trovato giusti legami con esponenti di spicco della malavita nazionale ed internazionale». Quando era iniziata l’escalation? Secondo il funzionario, «già a partire dal marzo dell’80 si aveva la percezione di appartenenza del Graci alla nota organizzazione mafiosa italo-americana Cosa nostra. Infatti in seguito alle indagini svolte in merito al falso sequestro del noto banchiere Michele Sindona, morto suicida in un carcere di massima sicurezza in circostanze quanto mai dubbie, emerse che tale Joseph Macaluso, cittadino americano e noto esponente della mafia d’oltreoceano, aveva alloggiato presso l’Hotel Baia Verde di questa città a spese e per conto di una delle imprese edili facenti capo al Graci». Nello svolgimento della sua attività economica, inoltre, Gaetano Graci — scrisse il dottor Luigi Rossi — «ha operato di concerto con i gruppi imprenditoriali facenti capo ai noti imprenditori Mario Rendo e Carmelo Costanzo, con i quali ha costruito il consorzio Recogra», termine, questo, formato appunto dalle prime tre lettere dei cognomi Rendo, Costanzo e Graci.
All’epoca, l’impero di Carmelo Costanzo vantava un fatturato annuo di quattromila miliardi e costituiva il dodicesimo gruppo economico privato italiano. «Chiari sintomi — si legge nella segnalazione presentata dal questore alla Procura il 25 novembre ’87, prot. 30915/82, div. II, UA — di una sottile pericolosità ancorché generica, sono nettamente evidenziabili nella sua attitudine al falso, alla corruzione, al disprezzo per l’autorità costituita. Questi sintomi di pericolosità sociale sono stati giudicati a torto nel passato troppo scarni per adottare provvedimenti di polizia sul suo conto, ma il nome di Costanzo Carmelo, assieme a quello di altri noti imprenditori, è saltato fuori da tanti processi di mafia a seguito dei quali si è avviata un’approfondita indagine sulla sua personalità e attività».
Quale il contesto nel quale si svolgeva il business del “cavaliere”? «Costanzo — scrisse Rossi — non può che operare in una delle seguenti condizioni: a) assoggettamento ai canoni operativi di Cosa nostra in una situazione non di semplice compiacenza, dovuta all’impossibilità materiale di operare secondo canoni legali, ma di convivenza a cui l’adeguamento alla lex mafiosa lo ha portato per l’enorme accrescimento delle sue disponibilità economiche. b) cogestione secondo canoni mafiosi di gran parte dell’attività lecita e illecita di Cosa nostra. È voce diffusa che oggi in Sicilia è ormai difficilissimo ottenere un lavoro in appalto, anche di medie proporzioni, se non dietro una concessione, di fatto imposta, previo esborso di tangenti o di altro favore, dai gabellotti (si chiamavano così i guardiani dei feudi in Sicilia, nda) del Costanzo. Tutto quanto detto finora dimostra senza più ombra di dubbio che Costanzo Carmelo ricade almeno a cavallo tra le due ipotesi prospettate innanzi, cioè in quella di chi si adegua perfettamente ai canoni operativi di Cosa nostra traendone anzi ampia e diretta convenienza per le proprie attività lavorative». Non a caso le indagini che lo riguardavano erano state svolte per far luce sulle relazioni esistenti «tra soggetti che si interessano alla gestione mafiosa di attività lecite».
Il terzo “cavaliere” Mario Rendo — scrisse il questore Rossi nell’ultimo rapporto alla Procura che porta la data dell’11 aprile ’88, prot. 30937/82, MP — è un «esempio classico di tale categoria in quanto riesce a riunire in sé tutti i requisiti esposti». In che senso? «Un vincolo scellerato — precisò — unisce la manovalanza criminale mafiosa al sistema economico imprenditoriale siciliano rappresentato da uomini come Mario Rendo».

Le intuizioni di Dalla Chiesa - «I tentativi da parte del Rendo di condizionare i pubblici poteri con il peso del suo potere economico» — fece notare inoltre il questore — erano stati evidenziati nell’ordinanza dei giudici che hanno istruito il maxiprocesso di Palermo, nel capitolo riguardante l’illustrazione del quadro complessivo nel quale era venuto a trovarsi Carlo Alberto Dalla Chiesa dopo la nomina a prefetto di Palermo. «Oggi — aveva infatti dichiarato a Giorgio Bocca nell’intervista pubblicata su la Repubblica del 10 agosto ’82 — la mafia è forte anche a Catania. Con il consenso della mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?».
Queste frasi furono citate dal questore Luigi Rossi in un altro rapporto alla Procura, presentato il 30 giugno ’88 in risposta alla nota del 25/88 MP del 15 maggio ’88. Quali le deduzioni logiche sulle affermazioni di Dalla Chiesa? «Il prefetto non menzionò il nominativo in oggetto ma il riferimento all’organizzazione imprenditoriale del Rendo fu evidente perché il gruppo Rendo era, com’è tuttora, la maggiore organizzazione imprenditoriale esistente a Catania». D’altra parte, Dalla Chiesa, «appena un mese dopo il suo insediamento, il 2 giugno 1982, richiedeva al prefetto di Catania un profilo informativo sui titolari delle imprese Graci e Costanzo». Quali i motivi che giustificavano tanta attenzione? In certi appunti trovati fra i documenti del generale si faceva riferimento ai Costanzo ai Rendo ed alle “famiglie” mafiose di Catania di Ferrara e dei Santapaola.
Sulla scia di quell’indagine fu pure accertato che i nomi di Giuseppe Calderone e Nitto Santapaola, mafiosi di spicco che si erano avvicendati in quegli anni al vertice della struttura locale di Cosa nostra, figuravano nel “libro paga” di Carmelo Costanzo. Per una più completa illustrazione dell’andazzo, il questore Rossi richiamò inoltre l’attenzione della magistratura sulla posizione assunta da certa stampa dell’Isola nei confronti del prefetto: un atteggiamento di sottile polemica che lo stesso Dalla Chiesa aveva lamentato in una lettera al ministro dell’Interno Virginio Rognoni, scritta proprio nel pomeriggio del 3 settembre ’82, alcune ore prima di rimanere vittima della strage di via Carini.
Carmelo Costanzo — fece notare Rossi — è azionista «in società dedite ad informazione a mezzo stampa, a radiotelevisioni, quali il Giornale di Sicilia di Palermo, La Sicilia di Catania, Teleradio Ionica di Catania». E proprio di quest’ultima risultò socio, oltre ai fratelli Costanzo e Gaetano Graci, anche Guido Ziccone, «docente di Diritto penale presso l’Università di Catania e attualmente membro del Consiglio superiore della magistratura».

Scacco al questore - Facendo leva su queste motivazioni, il questore, tra il novembre dell’87 e il giugno dell’88, chiese alla magistratura catanese l’applicazione del soggiorno obbligato nei confronti di Carmelo Costanzo, Mario Rendo e Gaetano Graci per poterli estrapolare da un ambiente nel quale la loro pericolosità trovava linfa vitale.
Il tempo trascorse però inutilmente perché i “cavalieri” risultarono di fatto “inamovibili”. Dopo qualche mese fu invece il questore Luigi Rossi a lasciare l’Isola. Nei primi di settembre fu infatti nominato dal ministro dell’Interno Amintore Fanfani, succeduto ad Oscar Luigi Scalfaro, direttore dell’Istituto Superiore di Polizia. Nel novembre dello stesso anno divenne direttore centrale della Criminalpol.
E i suoi rapporti alla magistratura di Catania? Rimasero nei cassetti della Procura fino a quando, nei primi di ottobre dell’89, non finirono sulle prime pagine dei giornali. Le notizie suscitarono clamore e indignazione nell’opinione pubblica ma al temporaneo “insabbiamento” della richiesta del soggiorno obbligato nei confronti dei tre “cavalieri dell’Apocalisse”, durato più di due anni, seguì l’archiviazione a meno di un mese dalle “rivelazioni”. Quali le cause del “gran rifiuto”? «Neanche gli avvocati potranno leggere le motivazioni: la nostra decisione è un atto interno» dichiarò al Corriere della Sera il procuratore Giovanni Cellura. «E fu la prima volta, nelle cronache giudiziarie catanesi — scrive Claudio Fava nel libro La mafia comanda a Catania — il segreto istruttorio verrà scrupolosamente rispettato».
E gli accertati rapporti dei “cavalieri” con Nino Santapaola e Giuseppe Calderone, raccontati dal fratello di quest’ultimo, Antonino, che si è autoaccusato, tra l’altro, dell’uccisione di quattro ragazzi di tredici anni? Esaminati nel corso di un altro procedimento, sono stati visti sotto una luce ben diversa da quella di chi li aveva ricostruiti minuziosamente attraverso osservazioni, pedinamenti, intercettazioni telefoniche ed interrogatori a tappeto. Quale la conclusione della magistratura? Proscioglimento in istruttoria. Come mai? «Sono stati prigionieri nelle mani dei boss, ostaggi eccellenti della mafia, anzi delle mafie che regnano su Catania e Palermo» spiegò su la Repubblica del 5 aprile ’91 Attilio Bolzoni. «Non complici — aggiunse — ma vittime. Costretti a scendere a patti, a mischiarsi, a calare sempre la testa ai Calderone o ai Santapaola di turno. Non luogo a procedere per i Cavalieri dell’Apocalisse, prosciolti da ogni accusa di mafiosità, non perseguibili penalmente per le loro frequentazioni con capi e sottocapi dell’onorata società. Un magistrato della Repubblica ha stabilito con una sentenza che non è reato pagare “protezione” ai boss, che la cosiddetta contiguità non è punibile se è subìta, se si è agito “in stato di necessità”. Con 86 pagine e un colpo di spugna si mette la parola fine al “caso dei Cavalieri’’, i potentissimi imprenditori catanesi entrati in questi anni in tutte le più intrecciate inchieste giudiziarie siciliane».

“Vittime” - Qualche particolare? I fratelli Costanzo e qualche loro collaboratore — si legge nell’ordinanza — «sostenendo di essere coscienti della loro posizione di disagio per situazioni obbiettivamente pregiudizievoli per la loro immagine, hanno esplicitamente ribadito di essere stati costretti a subire i mali minori per non far correre all’azienda gravi rischi. La necessità di munirsi del “visto d’ingresso” di Cosa nostra, in sostanza, è sempre stato un onere aggiuntivo rispetto a quegli altri oneri sopportati dalle imprese siciliane per avere gli appalti. Si allude alle tangenti richieste dai partiti politici — cui pure il Carmelo Costanzo ha fatto cenno — che peraltro permangono su un piano ben distinto da quello concernente la protezione».
Conclusioni? «Il rifiuto di un qualsiasi dialogo (dei “cavalieri” con i mafiosi, nda) finalizzato al raggiungimento di un certo punto di equilibrio condurrebbe l’imprenditore a rinunciare all’esercizio dell’impresa. Questa è la realtà con cui deve misurarsi l’imprenditoria siciliana nell’affrontare l’impatto con il fenomeno mafioso e, in particolare, per trovare soluzioni di non conflittualità con esso, posto che nello scontro frontale risulterebbe perdente sia il più modesto degli esercenti, sia il più ricco titolare di grandi complessi industriali».
La pioggia dei proscioglimenti scaturì da questa interpretazione dei fatti. Privi di colpe furono ritenuti i “cavalieri” ma anche i boss come Nitto Santapaola, Pippo Ferrera, Salvatore Pillera, Antonino Ferro, la “crema” della mafia catanese. E l’uccisione di un malavitoso di mezza tacca per aver dato fastidio a Carmelo Costanzo? «Risulta evidente — spiegò il giudice Luigi Russo — che, avuta presente l’essenza del rapporto di protezione, le modalità di attuazione di esso sfuggono al controllo del protetto, il quale anzi è tenuto a non interferire». E le autoaccuse di Antonino Calderone per l’omicidio dei quattro ragazzi? La magistratura della città etnèa non le ritenne veritiere.
Inutile soffermarsi sull’indignazione della società civile, della stampa, dei magistrati che avevano dato tutt’altre interpretazioni all’intera vicenda e dei rappresentanti delle categorie interessate. «La sentenza dei giudici di Catania — dichiarò Salvino Lagumina, a lungo presidente dell’ “Associazione industriali” di Palermo — rappresenta certamente un fatto nuovo. Si afferma, diciamo ufficialmente, un principio: in Sicilia o si paga o si soccombe». Molto più amaro il commento dell’imprenditore Libero Grassi: «Stabilire che in Sicilia non è reato pagare la mafia è ancora più scandaloso della scarcerazione dei boss. Ormai nessuno è più colpevole di niente. Anzi, quella sentenza suggerisce agli imprenditori un vero e proprio modello di comportamento: e cioè, pagate i mafiosi. E quelli che, come me, hanno invece cercato di ribellarsi?». Libero Grassi sarà ucciso cinque mesi dopo, il 29 agosto del ’91.

Obiettivo Veneto - Nel frattempo, i “cavalieri” catanesi, sapendo che in Sicilia le loro attività rimanevano comunque nel mirino degli inquirenti, avevano spostato la loro attenzione verso la penisola cercando di mimetizzarsi alla meglio. «Il vero mafioso — aveva scritto tre anni prima il questore Luigi Rossi — oggi ha il colletto bianco, agisce dietro le quinte e gestisce, direttamente o attraverso terze persone, imprese e società frutto o paravento dell’illecito». I suoi rapporti erano stati pubblicati su l’Unità del 3 ottobre ’89. Due giorni dopo, vari quotidiani mandano in onda un’altra notizia che fa scalpore. “Tra appalti e milioni i cavalieri catanesi sono arrivati in Laguna” è il titolo de la Repubblica. «I cavalieri del lavoro catanesi, gli stessi per i quali è stato chiesto il soggiorno obbligato si legge nell’articolo — sono sbarcati anche nel Veneto e hanno cominciato ad interessarsi attivamente dei grandi appalti pubblici. Non appaiono mai in prima persona, ma attraverso società e amministratori di fiducia, che comunque a loro fanno capo. I nomi di Gaetano Graci e di Mario Rendo sono venuti a galla in due inchieste avviate dalla Procura della Repubblica di Venezia».
«Nemmeno dieci giorni fa Graci è stato interrogato a lungo dal sostituto procuratore della città lagunare, Antonio Fojadelli, come testimone sull’attività di una società con sede a Venezia, l’Ama Srl. Il giorno prima, infatti, i carabinieri avevano arrestato a Roma il viceintendente di Finanza di Venezia, Giuseppe Castana, mentre era in compagnia del cavaliere del lavoro catanese. I carabinieri avevano seguito l’alto funzionario statale da Venezia fino alla capitale perché sospettavano che vi andasse per ritirare una tangente».
«Giunto a Roma, Castana si era recato negli uffici d’una delle società di Graci. Dopo era uscito assieme allo stesso Graci e ad una terza persona. Proprio in quel momento erano intervenuti i militari che avevano trovato contanti per venti milioni nella valigetta del collaboratore dell’imprenditore, l’architetto catanese Matteo Arena. L’accusa mossa al funzionario dell’intendenza di Finanza è stata di aver chiesto del denaro per accelerare i tempi di approvazione di una delibera di giunta in cui veniva sancito che i nuovi uffici finanziari sarebbero stati edificati in un particolare terreno nei pressi di Mestre. Quell’area tre anni fa l’aveva acquistata una società a responsabilità limitata per 300 milioni circa, poche lire rispetto al valore che poi avrebbe assunto grazie all’edificazione degli uffici. La società è l’Ama, con sede a Mestre, nello studio dell’architetto Ruggero Artico, lo stesso incaricato di progettare gli uffici che in seguito dovevano essere affittati dall’Intendenza. L’amministratore unico dell’Ama è il catanese Alfio Zappalà, legato da vincoli di parentela con Graci, che del resto durante l’interrogatorio non avrebbe avuto difficoltà ad ammettere che la società faceva capo a lui».
«Graci avrebbe spiegato al giudice che anche quei venti milioni trovati all’architetto Arena erano suoi, ma erano stati consegnati al professionista per pagargli una parcella. L’architetto, infine, avrebbe ammesso che quel denaro era per il viceintendente di Finanza, ma non si sarebbe trattato di una tangente, bensì di un regalo, di un prestito senza alcun favore in cambio. Il funzionario dello Stato, dopo l’interrogativo, è stato liberato perché erano venuti meno i requisiti di urgenza e pericolosità per l’arresto».
«Una della società che fa capo a Rendo, invece, l’Impa, appariva in un consorzio con la Rizzi Spa di Rovigo per un appalto di dodici miliardi dell’Anas per la costruzione di un ponte sul fiume Po. E nell’ambito delle indagini condotte dal sostituto procuratore di Venezia Ivano Nelson Salvarani su quell’appalto il titolare e l’amministratore dell’importante società edile veneta e i pubblici funzionari erano finiti in manette per corruzione».

Carmine Mancuso: “insabbiamenti!” - In merito, altre notizie si hanno alla fine di aprile del ’90, quando il rapporto del Nucleo Carabinieri di Polizia Giudiziaria di Venezia viene inviato a Domenico Sica, Alto Commissario per la lotta alla mafia. Poi il silenzio più assoluto fino al 6 ottobre del ’91, quando Carmine Mancuso comincia a parlare di “insabbiamenti”. A questo punto la Procura di Venezia, in un comunicato ufficiale, conferma che il documento dopo la spedizione a Sica «ai fini di un più efficace coordinamento investigativo», è stato «inoltrato a varie Procure eventualmente competenti per territorio». Con quali conseguenze? «Quali attività o accertamenti siano stati avviati (o siano in corso) da parte di detti uffici non è noto né alla procura di Venezia, né all’Arma dei carabinieri», è la conclusione del comunicato. In effetti il rapporto dei carabinieri fu spedito a dodici Procure, fra le quali quelle di Roma, Catania, Trapani e Palermo, ma soltanto nella primavera del ’91.
In ottobre, dopo lo scoppio delle polemiche, è stato chiesto anche dalla Procura di Ferrara, dove Gaetano Graci ha fatto investimenti attraverso la collaborazione di Carlo Colombana, un architetto di Carrara San Giorgio, in provincia di Padova. Quale il suo curriculum? Il “successo” professionale inizia, quando entra a far parte del pool di architetti e ingegneri assunti dalla Sitas, la società di Sciacca, in provincia di Agrigento, — costituita nel ’73 con nove miliardi di capitale sociale conferito per il 55% dell’Ente Minerario Siciliano (EMS), ente pubblico regionale, e per il 45% da un gruppo di albergatoti di Abano — per la realizzazione di un faraonico progetto voluto da due personaggi: Graziano Verzotto e Calogero Mannino.
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Ferrara - Recentemente i tentacoli della “piovra” sono stati notati anche a Ferrara, dove si sono intrecciati con le propaggini di altri gruppi e organizzazioni. «La strage del 2 febbraio ’89 ad opera del killer Valeriano Forzati nel night “Laguna Blu” di Mesola; il racket delle estorsioni ormai di casa anche nei Lidi ferraresi; l’omicidio del fornaio Paolino Bertelli; la scoperta di due raffinerie di eroina a Gallo e Chiesanuova; ecco un esempio — ha scritto nel gennaio del ’91 Silvana Piccinini su Società civile, il mensile milanese diretto da Nando Dalla Chiesa — di ciò che succede sulle rotte del traffico di stupefacenti tra Turchia, Svizzera, Lombardia, Trentino, Veneto e Sicilia. Una capillare rete di collegamenti con un crocevia importante, l’Emilia Romagna, e Ferrara in particolare. D’altra parte i fatti dimostrano come la tranquilla provincia emiliana sia oggi una delle realtà più importanti e “trafficate” che Cosa nostra abbia al Nord. In una posizione centrale e privilegiata rispetto a Venezia, Milano e Bologna, Ferrara aveva infatti tutte le regole per diventare — e lo è diventata — una delle maggiori centrali di smistamento e scambio tra l’eroina turca e la cocaina colombiana. Uno scambio gestito dalla mala del Brenta, dalle famiglie Savoca e Spadaro. Con un intreccio che ha un nome: Coca Connection. Venuta alla ribalta nel settembre ’88 con l’arresto all’aeroporto di Venezia del corriere colombiano Josè Suarez, l’ennesima connection è stata svelata dall’inchiesta del giudice istruttore veneziano Saverio Pavone e del tenente colonnello dei carabinieri Giampaolo Ganzer e ha quindi imboccato una pista già percorsa dal giudice Carlo Palermo: una pista, quella cosidetta “ticinese”, che sembra intrecciarsi a tutte le inchieste svolte finora. Un intreccio che ha probabilmente a che fare con la morte del giudice Rocco Chinnici, con quella del commissario Ninni Cassarà e dei suoi agenti Roberto Antiochia e Natale Mondo. Oltre che con il fallito attentato al giudice Carlo Palermo e al sostituto procuratore aggiunto Giovanni Falcone. E a quella, guarda caso, contro il giudice Pavone e il colonnello Ganzer. Tutti attentati con un mandante, almeno per quanto riguarda la mafia, in comune: quello di Gaetano Fidanzati».
«Zu Tanino, come lo chiamano gli “amici”, è stato arrestato alla fine del febbraio di quest’anno in Argentina. Undici giorni dopo è stata la volta del killer Valeriano Forzati. Quali sono gli altri nomi che legano Ferrara a Cosa nostra? I due pentiti Osvaldo Massari (ex brigadiere e corriere per conto della mafia del Brenta) e Franco Fuschini (trafficante con contati molto stretti con i turchi) hanno parlato per ore con il giudice veneziano Saverio Pavone, i magistrati ferraresi Domenico Mecca e Vincenzo Melluso, il giudice istruttore e il sostituto procuratore di Bologna, Grassi e Libero Mancuso. E hanno confermato un lungo elenco di fatti e di personaggi. Tra questi spicca il “gotha” della mala ferrarese (il cui stato di qualità è costituito sicuramente dall’organizzazione dell’evasione di Hanifi Arslan, trafficante turco già inquisito dal giudice Palermo; Luigi Gnani, il “banchiere del gruppo”, Giuseppe Cenacchi, suo braccio destro, Alessio De Gregorio, Antonio Fabbri, Maurizio Marangoni (grande amico di Valeriano Forzati), Antonio Gaglio, Roberto Marzocchi, Gianfranco Piazzi e Giancarlo Colombani. Gnani, che ha contatti diretti con la mafia marsigliese tramite sua moglie Dominique Naridal, sorella di un boss del sud della Francia, riciclava personalmente il denaro tramite la copertura di finanziarie come la “Europe”, attraverso le quali controllava quattro immobiliari. Un volume d’affari di miliardi, se è vero che i carichi settimanali arrivavano anche a colpi di venti chili di coca la settimana. Niente male per una città in cui la “mafia non esiste”».
Poi, sempre a Ferrara, in certi ambienti ha cominciato a pesare la “longa manus” di certi operatori economici di ben più alto livello. «Di loro — ha precisato Silvana Piccinini — si è occupato il generale Carlo Alberto dalla Chiesa poco prima di morire assassinato dalla mafia. La loro pericolosità è stata ampiamente evidenziata dal pool antimafia e l’ex questore di Catania Luigi Rossi (“provvidenzialmente” promosso dopo questa denuncia) li ha definiti “complici della mafia, se non peggio”. Chi sono? Ma i “Cavalieri dell’Apocalisse”, come li definì il direttore de I Siciliani, Pippo Fava ucciso anch’egli dalla mafia il 6 gennaio 1984: ovvero Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro. Cavalieri che guarda caso ritroviamo anche al Nord, in particolare in Emilia Romagna, dove si sono suddivisi l’intera torta degli appalti pubblici e privati. Di Gaetano Graci, il quale da dieci anni fa affari con la Lega delle cooperative e al quale è andata la fetta ferrarese, l’ex questore di Catania, nel suo inascoltato rapporto alla Procura locale ha scritto che gli calza a pennello la figura aggiornata e rivista del mafioso dei nostri tempi, il quale, inserito in un contesto imprenditoriale, ha cercato e trovato giusti legami con esponenti di spicco della malavita nazionale e internazionale. Non solo. Nei passi in cui fa riferimento al nostro “Cavaliere al lavoro”, arrivato in una piccola e tranquilla provincia dell’Emilia Romagna come Ferrara gestendo appalti miliardari tramite immobiliari di “fiducia”, l’ex questore di Catania Rossi ha scritto ancora che “sangue e violenza sono mezzi ai quali la mafia ricorre solo in casi estremi e che in realtà oggi il vero mafioso ha il colletto bianco, agisce dietro le quinte e gestisce direttamente o tramite terze persone imprese e società frutto o paravento dell’illecito”. Un ritratto che pare ritagliato apposta per Graci, definito testualmente “un esempio classico di tale categoria”: e che sembra, almeno per lo “star dietro le quinte”, andare a pennello per Ferrara, dove il “Palazzo degli specchi” è stato ufficialmente costruito dal carrozziere padovano Carlo Colombana (poi si è scoperto che è anche architetto ed è stato membro del consiglio di amministrazione di varie società che hanno capo a Graci, nda). Oltre al ritratto di Graci l’ex questore ha però consegnato il ritratto di un’altra conoscenza ferrarese: Mario Rendo, che guarda caso ritroviamo nel Consorzio Delta Po a gestire appalti per mezzo miliardo sul grande fiume. Del cavalier Rendo, che manovra un giro d’affari di ben 500 miliardi, si era occupato in modo particolare il generale Dalla Chiesa che aveva avanzato l’ipotesi di un suo coinvolgimento nella “nuova mappa del potere mafioso”».

(Fonte: MAFIA: UN POTERE ECONOMICO E POLITICO ESERCITATO CON LA VIOLENZA, Enzo Guidotto, Edizioni “La Galleria”, dicembre 1992)






Ferrara, il Duca rosso turba la rivoluzione civile

Dopo aver causato il divorzio Bersani-Diliberto, la candidatura dell'ex sindaco Soffritti inquieta la base di Ingroia

12 GEN 2013. Perché mai il Pdci prima ha spaccato la Federazione della sinistra per correre alle primarie a sostegno di Vendola, prima, e di Bersani al ballottaggio e adesso rispunta in corsa con Ingroia nel polo autonomo da Monti e dal montismo versione Pd-Sel? Non risulta una versione qualsiasi dal quartier generale degli ex cossuttiani e non sfugge il basso profilo adottato sulla questione. Sul sito non c'è traccia del passaggio cruciale mentre in rete (e nel corpo vivo del partito) c'erano stati parecchi segnali di dissidenza e insofferenza rispetto alla scelta delle primarie e alla diserzione dal No Monti day del 27 ottobre.

Il 26 novembre, alle 16:25 Diliberto spiegava che «dal primo turno delle primarie è emersa una grande domanda di partecipazione, di democrazia e di cambiamento. Vendola raccoglie una buona affermazione, soprattutto al Sud, dove gli effetti della crisi sono più forti. Confermiamo da subito il nostro impegno a sostegno di Pier Luigi Bersani al secondo turno. Dal nostro punto di vista è necessario far contare le ragioni del lavoro, e sicuramente, tra i due candidati in campo, Bersani è quello che interpreta meglio un modello di Italia aperta e solidale alla quale ci sentiamo più vicini».

Potrebbe essere andata così: dopo aver preso parte alla vittoria di Bersani, si sarebbero visti offrire la miseria di due seggi mentre Diliberto ne avrebbe voluto almeno tre. Pomo della discordia sarebbe stato Roberto Soffritti, controversa figura di ex sindaco di Ferrara, transitato nel Pdci dove è stato tesoriere.

Una volta sorto l'astro di Ingroia, grazie al legame storico tra Orazio Licandro e l'ex pm di Palermo, il Pdci avrebbe tentato la carta di rientrare in coalizione con Bersani portando in dote una lista Ingroia come polo dei progressisti ma al Quirinale nessuno avrebbe fatto salti di gioia. Anzi, da lì potrebbe essere arrivato il veto. Così, alla vigilia del veglione, sabato 29 Dicembre alle 12:37, Diliberto dichiarava: «La presentazione della lista Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia rappresenta una vera novità nella politica italiana. Il Pdci è orgoglioso di far parte di questo progetto. E' necessario cambiare rotta rispetto alle politiche di austerità. Difesa del lavoro, lotta alla mafia e questione morale sono le coordinate attraverso cui cambiare il Paese».

Resta tuttavia la spina Soffritti. La stampa ferrarese, seminando il panico a sinistra, scrive che «La Rivoluzione Civile di Ingroia potrebbe arruolare un politico super navigato come Roberto Soffritti». Ma anche nel 2008, il mai rimpianto Arcobaleno dovette misurarsi con l'aut aut del Pdci sul nome del potente ferrarese. Ma i verdi di quella città puntarono i piedi e su un documento dell'epoca scrissero che era desiderio legittimo che il tesoriere nazionale del Pdci e parlamentare uscente, aspirasse a ricandidarsi ma «ci permettiamo però di notare che, a occhio, non ci sembra, onestamente, che egli possa essere considerato l'interprete ideale di quel programma appassionatamente illustrato da Bertinotti. Se restiamo al merito, lasciando da parte veti e aut aut, dovremmo chiederci tutti, a partire dallo stesso Roberto Soffritti e dal suo partito, se questa eventuale candidatura sarebbe coerente con scelte programmatiche basate su di una forte critica ai concetti di crescita e di sviluppo e su politiche urbanistiche finalizzate al risparmio di territorio; se l'eventuale candidatura di Roberto Soffritti risulterebbe credibile di fronte all'obiettivo dichiarato dalla Sinistra Arcobaleno di contrastare la logica e la cultura delle "larghe intese". Infine, l'eventuale candidatura di Roberto Soffritti aiuterebbe l'alleanza della Sinistra Arcobaleno a superare le difficoltà, a condurre a livello locale la migliore e più serena campagna elettorale possibile con l'obiettivo di raggiungere il risultato migliore possibile? E' chiaro che gli stessi interrogativi occorre porseli anche su tutti gli altri potenziali candidati, i nostri compresi».

Gli stessi malumori, e le medesime forze centrifughe potrebbero agire anche adesso se quel nome dovesse ricomparire. Furono sedici anni «disastrosi» quelli del «Duca rosso», così lo chiamava la stampa del '98 al crepuscolo di un regno politico basato sui grandi eventi artistici e sul consociativismo. Perché qui si parla soprattutto di politica, di disinvoltura nei rapporti con imprenditori in odor di mafia, di patti di ferro con la peggiore Dc, la Dc del Caf. Nulla di penale, anche se le malelingue insinuano che lo si deve ai buoni rapporti con l'ex procuratore generale.

Il nome di Soffritti, nella memoria della città, è legato alla vicenda del Palazzo degli Specchi, centro direzionale costruito dal cavalier Graci che Soffritti incontrava nel suo ufficio mentre tutti i giornali nazionali riportavano il coinvolgimento di Graci in inchieste di mafia. I lavori vennero affidati alla CoopCostruttori di Giovanni Donigaglia per conto dei costruttori catanesi Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro, titolari della "Società Estensi", ma nel 1989, poche settimane dopo la chiusura del cantiere, da un dossier della Criminalpol emersero legami tra gli imprenditori siciliani e la criminalità mafiosa e tutto si bloccò. Gaetano Graci fu arrestato con l'accusa di presunti rapporti col clan di Nitto Santapaola e colpito dal sequestro giudiziario di proprietà per un valore attorno ai 500 miliardi di lire. Il "gigante" di vetro e cemento agonizza da 23 anni nella periferia sud-ovest di Ferrara.

C'è anche una grande incompiuta nell'album di famiglia di Soffritti: l'Ospedale di Cona, vent'anni di lavori per 500 milioni di euro, fino all'inaugurazione lo scorso anno, senza le necessarie misure di sicurezza, con carenze igienico-sanitarie, locali sporchi, senza segnalazione di uscite di emergenza, interruttori elettrici salvavita. Una lievitazione sconvolgente dei costi per un cantiere che sprofonda nell'acquitrinio su cui è stato costruito. Tutte questioni che i verdi locali hanno denunciato per anni. Poi c'è la Casa del Pellegrino, costruita con i fondi del Giubileo, mai utilizzata per i "pellegrini" e poi trasformata (per fortuna) in centro per la riabilitazione. Quando il Pds decise di chiudere con lui, Soffritti raccolse le firme per una lista alternativa che ritirò solo quando gli diedero il posto di Presidente della Fer, poi entrò del Pdci. Nella legislatura 2004 - 2009 era contemporaneamente deputato e consigliere comunale a Ferrara. La stampa ne parlò come uno dei più assenteisti in entrambi i ruoli. Domanda a Ingroia: «Se tutto questo è vero, sembra il rappresentante di una politica già vista e priva di etica, basata sul consociativismo, sugli accordi sottobanco, sul disprezzo per le istituzioni (era noto che tutte le decisioni venivano assunte d'estate tra lui e Cristofori sotto gli ombrelloni dei Lidi ferraresi), sulla logica che il denaro pubblico è da prendere comunque sia e che con i privati si fanno affari indipendentemente da chi sono».


Checchino Antonini (fonte:
popoff.globalist.it)





Rispunta l'eterno Soffritti

 

Non per niente lo chiamavano il Duca. Perché l'ordine dinastico prevede che le onorificenze acquisite siano mantenute a vita. E lui, Roberto Soffritti, per 16 anni Primo Cittadino di Ferrara, ai suoi titoli ci tiene. Sindaco dall'83 al '99, poi Onorevole della Repubblica (in quota Diliberto), infine Tesoriere (del Pdci prima e della Federazione della sinistra poi), ora Roberto I d'Este vorrebbe ritentare la scalata a Montecitorio, sperando stavolta nel vessillo della Lista Ingroia.
Un'autocandidatura contestata. Non per i dubbi dell'ex pm antimafia, ma per le rimostranze dei suoi conterranei. I quali, ingrati, lo ricordano Garante del patto di ferro tra il Pci ferrarese e la Dc di Cristofori, Sponsor dell' ormai fallita Coopcostruttori, Ostetrico di un aborto in vetrocemento chiamato Palazzo degli Specchi (realizzato con la fattiva collaborazione di palazzinari in odor di mafia) e Suggeritore dei terreni acquitrinosi su cui è stato costruito l'ospedale di Cona.
Sbavature. Del resto, la rivoluzione (civile) non è un pranzo di gala.

(Fonte: www.larepubblica.it, 15 gennaio 2013)





 


Sul web commenti ostili a Soffritti

La possibile candidatura di Roberto Soffritti nella liste di Ingroia sta scatenanda un mezza rivoluzione, quanto civile, dipende dai gusti. Sul web la più ostile al dirigente del Pdci (Soffritti è tesorire nazionale) ed ex sindaco di Ferrara è Elisa Corridoni di Rifondazione comunista: «speriamo si rendano conto che è importante pensionare certe persone, ma se non se ne dovessero ricordare ricordiamoci bene che in questa compagine si vota rivoluzione civile o si fa un c...enorme sulla scheda». Barbara Diolaiti, storica dirigente dei Verdi ferraresi e avversaria ante litteram di Soffritti: «Farebbe un pessimo servizio al paese a tutti noi Ingroia se accettasse di candidare l’uomo, oggi settantenne, del Palazzo degli Specchi del cavalier Graci, colui che ha sempre ritenuto normale fare affari con i privati senza chiedersi chi fossero». Anche l’assessore provinciale Stefano Calderoni (Prc) commenta: «Speriamo che almeno un ramo del Parlamento sia potabile». Un duro attacco a Soffritti viene mosso anche da Liberazione.it .
A proposito di candidature Irene Bregola (segretaria Prc ferrarese) si sfila: campagna elettorale sì, in lista meglio di no.

(Fonte:
www.lanuovaferrara.gelocal.it, 13 gennaio 2013)


 




Rivoluzione Civile presenta le liste e difende Soffritti

Svelati i candidati ferraresi del movimento di Ingroia, che si scopre sempre più "politico" che "civile"

Diritti civili, politiche per il lavoro, lotta alla mafia, ambiente. E Soffritti. Si è parlato di tutto questo alla presentazione delle liste elettorali per le prossime elezioni politiche di Rivoluzione Civile, il movimento politico cappeggiato da Antonio Ingroia. Una presentazione in cui le cinque candidate ferraresi presenti hanno avuto modo di spiegare le ragioni del proprio sostegno al nuovo organismo politico e illustrare i propri progetti, prima che le – inevitabili – domande sulla decisione di far partecipare il noto ex sindaco di Ferrara alla corsa elettorale prendessero il sopravvento sugli altri temi.
Rivoluzione Civile è una forza politica a cui hanno aderito vari partiti e movimenti preesistenti e una componente di cittadini finora non impegnati in politica. La sua composizione politica può ricordare in qualche modo il progetto della “Sinistra Arcobaleno” che partecipò alle ultime elezioni nazionali: Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani e Verdi, con l’aggiunta di un’Italia dei Valori sempre più in rotta col Pd. Ed è proprio da questi ambiti che provengono la maggior parte dei candidati ferraresi, con Elisa Corridoni, segretaria del circolo Rosa Luxemburg del Prc, Massimo Ovani e Cecilia Mura, iscritti in quota Idv, Lina Pavanelli, portavoce dei Verdi di Ferrara, e Antonella Guarnieri, della direzione provinciale del Pdci. Dalla “società civile” proviene invece Delfina Tromboni, che è stata iscritta in passato, fino al 1991, al Pds.
E l’estrazione di ogni candidato ha anche influenzato la rilevanza data da ognuno ai vari punti del programma, condiviso comunque nella sua totalità dalle varie forze in campo. Elisa Corridoni si è detta “europeista, ma contro all’idea di Europa monetaria che favorisce il sistema della speculazione internazionale e mette in crisi gli aspetti sociali”. Un discorso che si estende anche alla lotta “al fiscal compact, che è di fatto una sorta di manetta messa agli stati e che obbliga a vendere il patrimonio pubblico, a privatizzare e a esternalizzare”. La candidata ha parlato anche della lotta alla criminalità organizzata, e in questo “la presenza di Ingroia come capolista ha un valore fortemente simbolico. Anche il nostro territorio si presta alle infiltrazioni mafiose, soprattutto in questo momento con la fase di ricostruzione che sta seguendo al terremoto”. Cecilia Mosca ha parlato anche dell’impegno contro la guerra e gli investimenti militari (“siamo contrari agli strumenti che non servono al nostro paese”), mentre Antonella Guarnieri ha posto l’accento sulle politiche del lavoro e culturali. “Ho visto come negli ultimi 15 anni certe politiche abbiano distrutto l’ambiente lavorativo. Oltre alle bassissime retribuzioni, causate anche dal venir meno della contrattazione nazionale, le continue redistribuzioni hanno causato delle guerre tristissime tra dipendenti, con un numero altissimo di giovani precari assunti e poi rimandati a casa senza alcun consolidamento”.
Chi parla degli aspetti più “politici” della campagna è Delfina Tromboni, che prima critica l’attuale legge elettorale, che “fa si che la formulazione delle candidature sia difficilmente controllabile dal basso, e costringe le forze politiche a fare scelte che devono tener conto di moltissime varianti”, per poi spiegare il proprio concetto di società civile. “Non esiste una società civile migliore della sua società politica, che ne è diretta conseguenza, e noi dobbiamo riportare questo concetto”.
Potrebbe essere per questo motivo che proprio la Tromboni si incarichi della difesa dell’ex sindaco di Ferrara Roberto Soffritti, di cui si è appresa pochi giorni fa la candidatura nelle liste di Rivoluzione Civile (vai all’articolo). “Penso che ci sia stato un accanimento mediatico e politico – spiega la candidata –, e su questa vicenda si sono scatenate reazioni per eliminare un candidato che fin dall’inizio era stato messo nella prima fascia delle liste”. La composizione delle liste, affidata infatti a un tavolo direttivo composto da Ingroia e dai dirigenti delle forze in campo, è suddivisa al 50% tra partiti e società civile, “e Soffritti è in ‘fascia uno’ non perché si siano improvvisamente innamorati di lui, ma perché è tesoriere nazionale del Pdci. La candidabilità di ogni nome è stata valutata singolarmente e con grande attenzione: Roberto Soffritti non è mai stato convocato per comparire in tribunale, non ha mai avuto un avviso di garanzia, non è mai stato processato. C’è una sentenza che dice che l’azione amministrativa del Comune durante la sua attività è stata improntata all’assoluta trasparenza, e dimostra che non ha nulla a che fare con l’arrivo di Graci a Ferrara nella vicenda relativa al Palazzo degli Specchi. Ed è falsa anche la notizia apparsa sul Manifesto di due giorni fa in cui veniva indicato come imputato in un processo per falsa testimonianza”. Una difesa – forse d’ufficio – impuntata sul concetto di “garantismo”, e che potrebbe far storcere il naso a molti ferraresi. Ma il nome dell’ex sindaco non comparirà nelle schede elettorali dell’Emilia Romagna: per la sua elezione ci si affida ai voti provenienti da Veneto, Liguria e Calabria. Sperando che non abbiano mai seguito le cronache ferraresi.

Fonte: http://www.estense.com/?p=272057, 22 gennaio 2013







Il Duca verso il parlamento

Roberto Soffritti candidato per Rivoluzione civile di Ingroia alla Camera

Roberto Soffritti è di nuovo in corsa per il parlamento. Non nella ‘sua’ Emilia-Romagna, ma è ancora in corsa. L’ex sindaco di Ferrara è candidato per Rivoluzione civile di Ingroia alla Camera. La sua posizione è la terza in tre regioni: Liguria, Veneto e Calabria. Un piazzamento che lancia l’ultrasettantenne politico ferrarese verso la sua seconda legislatura. Alla lista dell’ex pm basterà superare lo scoglio del 4% – obiettivo più che raggiungibile a rigor di sondaggi – per piazzarlo a Montecitorio.
Per Soffritti sarà il coronamento di una carriera costellata di incarichi. E di emolumenti. Per 16 anni ininterrotti sullo scranno più alto del municipio, padre – e per alcuni “padrone” – della politica locale fino alla fine degli anni ’90, il suo nome in città viene associato ancora alle vicende della Coopcostruttori, al patto di ferro con la Dc di Cristofori e, soprattutto, del Palazzo degli Specchi finito sotto sequestro per le indagini di mafia.
Nato a Ferrara l’11 ottobre 1941, laureato in Economia, funzionario regionale e poi sindaco comunista di Ferrara dal 1983 al 1999, Soffritti abbandonò gli epigoni di Berlinguer nel 2001, quando lasciò i Ds con in tasca la nomina a presidente Fer e si iscrisse al Pdci. Divenuto braccio destro di Diliberto, in breve scala i gradini della gerarchia interna dei comunisti italiani divenendone tesoriere nazionale (ricopre identica carica anche nella Federazione della sinistra, la lista che comprende Pdci, Rifondazione e Socialismo 2000). Con il Pdci diventa anche deputato dal 2006 al 2008. Uno degli ultimi prestigiosi incarichi ricevuti lo vede presidente di Metronapoli, nominato dalla giunta Iervolino nel giugno del 2010 (si dimetterà nel 2011). L’unico smacco nella sua carriera politica risale al 1999: è in corsa per le europee, ma nonostante le quasi 34mila preferenze manca l’approdo a Strasburgo classificandosi primo dei non eletti.
Dopo aver ritentato la corsa al parlamento italiano nella burrascosa alleanza della Sinistra Arcobaleno (i Verdi si rifiutarono di fare campagna elettorale), ora il “Duca” ci riprova in una posizione quasi blindata. Ma – come detto – in regioni diverse.
A giocare a sfavore della presentazione della sua candidatura in regione ha giocato probabilmente la scarsa affinità con gli altri alleati di Ingroia. Dei Verdi, o di quel che ne rimane, si è già accennato. A ‘rinverdire’ i vecchi attriti ci pensa l’ex segretaria provinciale degli ecologisti Barbara Diolaiti che su facebook lascia un commento tranciante: “Farebbe un pessimo servizio al paese e a tutti noi Ingroia se accettasse di candidare l’uomo, oggi settantenne, del Palazzo degli Specchi del cavalier Graci, colui che ha sempre ritenuto normale fare affari con i privati senza chiedersi chi fossero. “Pecunia non olet” non può essere il motto di Rivoluzione civile”.
La stessa Rifondazione non sembra gongolare di fronte al suo nome in lista. Lo dimostrano i commenti lasciati sui social network dai suoi esponenti locali. Elisa Corridoni si consola ricordando che “a Ferrara (e non solo) si è dato un parere sull’opportunità di questa candidatura. Però è altrove che si decide”; mentre Stefano Calderoni rimedia alla delusione con una battuta: “speriamo che almeno un ramo del parlamento sia potabile”.
Sulla candidatura “inopportuna” si esprime con una nota anche Gentedisinistra, che non risparmia stoccate nemmeno a Rifondazione: “si finge di non capire che è l’accettazione del sistema “malato” degli accordi spartitori tra i vertici dei partiti che consente poi ad ognuno di essi di candidare chi gli pare senza alcuna considerazione del bene comune e soprattutto del bene dei cittadini.

Fonte: http://www.estense.com/?p=270877, 17 gennaio 2013








 

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