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Pippo Giordano, il racconto del Sopravvissuto PDF Stampa E-mail
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Scritto da Simona Zecchi   
Mercoledì 19 Settembre 2012 21:01

Il racconto dell’ex ispettore della DIA Pippo Giordano che ha affiancato Borsellino, Falcone, Cassarà e Montana nella lotta alla mafia. Un racconto lungo, una testimonianza affidata al giornalista Andrea Cottone e un dialogo con Notte Criminale


«L’attività investigativa è come una sorta di catena di montaggio.» E’ questa la frase che colpisce tra le righe del libro-testimonianza “Il Sopravvissuto” (Edizioni Castelvecchi RX - 2012, pagg. 176). Ed è da questa frase, posta a metà di un lungo avvincente racconto, che parto per intervistare Pippo Giordano.  
 
Lavorare fianco a fianco dei due giudici simbolo dell’antimafia e degli ispettori che con le loro indagini hanno contribuito alla cattura dei latitanti più pericolosi dell’allora guerra di mafia fra Riina e gli “scappati”.. 
 
«Alt ! » Mi ferma Giordano. 
 
«Diamo il nome alle cose quali sono: gli efferati omicidi e le stragi sanguinarie poste in essere da Riina e dai suoi uomini dalla strage di Viale Lazio in poi non si possono definire “guerra di mafia”. Una guerra presuppone due fazioni contrapposte: nel caso di Riina si è trattato di una presa di potere» 
 
E’ importante questa distinzione perché pronunciata da chi operava in primo piano senza riflettori accesi, all’ombra dei più esposti e perché entra nel fatto che ha determinato la scalata al potere e alla cupola di Salvatore Riina e i suoi accoliti. 
 
Giordano si ritrova nella DIA ai tempi del questore Nicolicchia (Giuseppe Nicolicchia come scrive Saverio Lodato in “Quarant’anni di mafia – Storia di una guerra infinita” Bur Edizioni, poi si scoprì come facente parte della P2) ma arriva prima in forze alla squadra mobile e a caccia di scippatori e rapinatori, la criminalità qualunque. 
 
E’ lì che Ninni Cassarà lo nota e chiede il suo supporto: inizia tutto con le indagini su un latitante Salvatore Montalto. Le collaborazioni del poliziotto attraversano anche fila che poi si riveleranno purtroppo ingloriose per lo Stato italiano: sono gli anni di Bruno Contrada e Ignazio D’Antone (entrambi stanno scontando una condanna a 10 anni per concorso esterno all’associazione mafiosa) e Giordano racconta nel libro proprio in merito all’interrogatorio svoltosi il 17 luglio 1992, poco prima dell’esplosione in Via D’Amelio, come fosse preciso e senza ammissione a deroghe il metodo di Borsellino: «Mutolo parlava ormai da ore. La stanchezza era così tanta che neanche la sentivamo più. A un certo punto interviene Natoli (Gioacchino Natoli, magistrato ndr), vuole i nomi dei collusi nelle istituzioni. Mutolo non tentenna neanche un secondo e li caccia fuori. (…) Borsellino si infuria. Non era quello il momento. (…) Mutolo stava disattendendo il programma… » 
 
Ecco il fatto scandagliato per spiegare un metodo e un comportamento che hanno fatto la storia antimafia. Chiedo a Giordano se Borsellino e Falcone avessero lo stesso metodo. Lui risponde che la scuola era la stessa un metodo comune deciso insieme solo i caratteri di ognuno differivano. «Interrogare secondo un programma, gradualmente, capire da quale famiglia venisse, quali fossero i legami, i reati prima commessi dal collaboratore, ecc per avere un quadro unico generale e insieme particolareggiato per arrivare alle infiltrazioni, alle collusioni. Non prima. Borsellino era sanguigno si infuriava non erano lasciate all'immaginazione le sue reazioni; Falcone era più calmo e sapeva non lasciar trapelare i suoi pensieri. Perché valutare chi si ha di fronte mentre ti racconta verità o bugie non è da poco. » Anime diverse ma stesso metodo. 
 
Ecco la catena di montaggio, il lavoro questa parola così importante e così in bilico oggi era l’asse portante invece del processo investigativo. Ed è così che la testimonianza di Pippo Giordano sotto la sintassi del giornalista Andrea Cottone si sviluppa: raccontando quel lavoro. 
 
L’ex ispettore ama ricordare in particolare una figura, un collega Calogero Zucchetto detto Lillo e lo fa con delicatezza, la voce che rimane stentorea mentre il ricordo si fa più vivo: «Tra tutti i validi colleghi che ho conosciuto lungo il mio percorso lavorativo, Lillo era il più onesto; lo uccisero perché fu riconosciuto durante un sopralluogo per catturare Montalto. Io mi opposi alla sua partecipazione al blitz che poi lo catturò, ma lui era deciso “ormai mi hanno riconosciuto”. » Zucchetto fu assassinato il 14 novembre del 1982, fu il poliziotto che collaborò con i commissari Cassarà e Montana alla stesura del rapporto “Greco più 161”. Il famoso rapporto dei 162 che rivelò la struttura dei mandamenti mafiosi, le famiglie, le città che gestivano la Cosa negli anni ‘80. 
 
Pippo Giordano è stato in stretto contatto con i “pentiti” più importanti: Totuccio Contorno, Francesco Marino Mannoia, Gaspare Mutolo. Ne ha custodito i segreti contribuendo a quel lavoro di cesello della squadra investigativa che si sarebbe poi costituita in pool. Capiva il loro linguaggio verbale e non verbale, ne capiva la cultura pur non condividendola e sapeva farsi rispettare. 
 
E’ qui che gli chiedo come fosse possibile non superare quel limite, quella linea in cui molti caddero e cadono ancora. Come fosse possibile distinguere, per chi aveva pochi riferimenti culturali e di giustizia, la linea da non travalicare in quel magma di favori facili e meno facili. Come la cultura del rispetto non potesse costituire poi d’ostacolo al rispetto per se stessi. 
 
Giordano mi risponde che prima di tutto c’era la famiglia a proteggerlo da quelle maglie poi anche un fatto logistico. La borgata in cui è cresciuto, Acqua dei Corsari, era fuori dalla gestione delle famiglie mafiose. E lì è anche questione di pochi chilometri. «Nonostante questo – racconta – passava il “principe” del momento e pretendeva l’inchino come forma di rispetto; molti lo facevano ma non voleva dire che fossero d’accordo con la pratica o con il mafioso, semplicemente lo facevano non solo con i mafiosi. E’ difficile da spiegare e sembra strano che possa provenire da me: ma questo è il punto io capivo questa società e sapevo affrontarla» 
 
Un altro aspetto del suo rifiuto, ed è questo quello più significativo in fondo, si riferisce alla considerazione di Giordano per gli uomini “d’onore”: «Mi facevano ridere: il loro portamento, i modi che avevano di guardarti, di pronunciare certe espressioni, io ridevo. E oggi quando sento da chi si difende in politica da certe frequentazioni “non è che ce l’hanno scritto in fronte o hanno la patente da mafiosi, non li riconosco…” mi viene da ridere perché è qualcosa che puoi raccontare a chi siciliano non è. » 
 
Io gli ribatto che veramente lo hanno capito anche gli altri e senza per questo accusare per le origini. Qui la linea è ben delineata per tutti. 
 
Alla fine del dialogo la domanda che riporta la guerra, anzi la presa di potere, ai giorni di oggi. Cosa ne pensa delle indagini sulla trattativa? Quella, tra le tante, troppe avvenute dalla Repubblica in poi, che vede rinviati a giudizio 12 persone tra mafiosi, uomini dello stato e militari? 
 
<<Che non sono bastate le morti in questo paese, non sono bastati tutti i gravi fatti e i sacrifici di Chinnici, Cassarà, Montana, Falcone e Borsellino, La Torre, Dalla Chiesa per far capire che il compromesso è il nodo di tutto>> 
 

Simona Zecchi (nottecriminale.it, 19 settembre 2012)







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