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Il mosaico delle inchieste tra paradossi e realtà PDF Stampa E-mail
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Scritto da Giovanni Bianconi   
Lunedì 03 Settembre 2012 14:14

Come si è arrivati alle polemiche incrociate contro Quirinale e pm

ROMA - Per quanto se ne è discusso e per le divisioni e polemiche che hanno provocato, si potrebbero definire il «giallo dell'estate». Le telefonate tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, casualmente intercettate nell'ambito dell'inchiesta palermitana sulla cosiddetta trattativa tra pezzi di Stato e pezzi di mafia al tempo delle stragi, hanno alimentato un caso politico-giudiziario che dura da un'intera stagione. E promette altri sviluppi. Se non altro alle prossime scadenze: la decisione della Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale, e l'udienza preliminare per gli imputati nel procedimento sulla trattativa. Anche lì, infatti, qualche avvocato potrebbe chiedere di sospendere il giudizio in attesa che la Consulta si pronunci, per poi - eventualmente - proporre l'acquisizione di quei colloqui. Sebbene, per ammissione degli stessi magistrati, quei colloqui non abbiano nulla a che vedere con i presunti reati e le persone chiamate a risponderne.

È il paradosso di questa contorta vicenda: dalla metà di giugno, quando i pubblici ministeri di Palermo hanno chiuso l'inchiesta, ci si accapiglia su un paio di intercettazioni (ma non se ne conosce nemmeno il numero esatto) in cui compare il presidente della Repubblica, nonostante gli inquirenti abbiano ripetuto in tutte le salse che si tratta di colloqui irrilevanti, estranei al procedimento giunto a conclusione. Eppure sono l'oggetto (misterioso) di una disputa dai toni sempre più alti, e non solo per via del conflitto avviato davanti alla Corte costituzionale.
 

Il conflitto strumentalizzato
Il capo dello Stato ha voluto porre una questione di principio: la possibilità che le sue conversazioni accidentalmente registrate siano valutate «ai fini della loro eventuale utilizzazione investigativa o processuale». Ma le polemiche pressoché quotidiane travalicano quella questione, e il nome del presidente Napolitano viene comunemente affiancato all'indagine sulla trattativa. Anche se non c'entra niente. Nemmeno per quanto riguarda presunti tentativi di condizionamento dell'inchiesta, ancora una volta esclusi dagli stessi magistrati inquirenti.

Ecco perché s'è arrivati alle strumentalizzazioni incrociate (contro il Quirinale e contro la Procura di Palermo) denunciate dal procuratore aggiunto Ingroia, e alle «menti raffinatissime» evocate dal superprocuratore Grasso dietro i tentativi di destabilizzazione indirizzati contro Quirinale e magistratura. Due modi per mettere in guardia dallo stesso pericolo: fare confusione per porre le istituzioni l'una contro l'altra. Allontanando l'attenzione dalla questione centrale: le «relazioni pericolose» tra uomini delle istituzioni e di Cosa nostra nel biennio 1992-94 contrassegnato dagli attentati in Sicilia e sul continente.

Quei contatti che vanno sotto il nome di «trattativa» non sono un'invenzione di qualche magistrato o investigatore fantasioso. Già nel 1998, la sentenza della Corte d'assise di Firenze sulle stragi del '93 certificò che i colloqui degli allora ufficiali del Ros dei carabinieri Mori e De Donno con l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino «avevano tutte le caratteristiche per apparire come una "trattativa", e l'effetto sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all'organizzazione». Di più. I giudici di Firenze si spinsero a ipotizzare che i contatti carabinieri-Ciancimino avessero aperto la via all'arresto di Totò Riina, al prezzo di «sostanziali concessioni ai mafiosi»; per esempio, sappiamo oggi, l'allentamento del cosiddetto «carcere duro». E scrissero: «Questa eventualità fa rabbrividire ogni persona avveduta, ma è inidonea a influenzare questo giudizio che non concerne i contraenti dalla parte di qua di questo ipotetico contratto illecito (gli ufficiali dell'Arma e i loro eventuali mandanti, ndr ), ma coloro che, del contratto, sarebbero stati i beneficiari». Cioè i boss mafiosi, processati e condannati in quella circostanza.
 

Un pezzo del mosaico
Adesso i pubblici ministeri di Palermo ritengono di aver composto un altro pezzo del complesso mosaico chiedendo il giudizio anche per alcuni di coloro che stavano «dalla parte di qua», cioè gli uomini dello Stato: Mori, De Donno, il loro capo dell'epoca Subranni, l'ex ministro Mannino, il senatore Dell'Utri. Accusati di «minaccia o violenza a un corpo politico dello Stato», per aver rafforzato la volontà ricattatoria dei mafiosi nei confronti del governo. È la veste giuridica (da sottoporre alla verifica dei giudici, ovviamente) dell'ipotesi avanzata dai giudici di Firenze, che s'erano dovuti fermare agli imputati «della parte di là», i rappresentanti di Cosa nostra.
Questa ricostruzione dovrà ora essere vagliata dal giudice dell'udienza preliminare Piergiorgio Morosini, che ha fissato il primo appuntamento con accusa e difese al prossimo 29 ottobre. Ma la conclusione a cui è giunta la Procura è una delle possibili conseguenze di quanto stabilirono altri magistrati nell'ormai lontano 1998. E anche se il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari dice che per la strage di via D'Amelio in cui morì Paolo Borsellino «non sono state individuate responsabilità penali probatoriamente sostenibili davanti a un giudice a carico di soggetti diversi da Cosa Nostra», le conclusioni della sua inchiesta sono piene di giudizi che lasciano intravedere quelle responsabilità. Per esempio quando si afferma che i carabinieri del Ros «sono soltanto il livello statuale più basso di questa trattativa. Altri soggetti, politici, vi hanno verosimilmente partecipato anche dopo il 1992». E ancora: «In quel momento storico, ben era possibile una trattativa con Cosa nostra, e molteplici erano le figure, anche istituzionali, che giocavano partite complesse e spregiudicate, con incursioni anche nel campo "avverso"». Attraverso le indagini «si è raggiunta la certezza che Borsellino sapesse delle trattative in corso, e che la sua posizione era, chiaramente, negativa». Per questo, «è possibile sia che la decisione di anticipare l'uccisione di Borsellino avesse, da parte di Cosa nostra, lo scopo di punire chi si era opposto alla trattativa, sia anche di riprendere la stessa da posizione di maggior vigore».
 

Polemiche sulle intercettazioni
A proposito dell'ex ministro dell'Interno Mancino, gli stessi magistrati di Caltanissetta non hanno escluso «la possibilità teorica che egli possa aver mentito perché ha qualcosa da nascondere». Loro si riferivano all'incontro con Borsellino, prima negato e poi non ricordato dall'uomo politico; oggi a Palermo Mancino è imputato di falsa testimonianza sulla conoscenza dei contatti carabinieri-Ciancimino e sui retroscena della sua nomina, avvenuta fra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio. Nelle sue telefonate al Quirinale l'ex ministro si lamentava - certamente con il consigliere giuridico del presidente, Loris D'Ambrosio, recentemente scomparso; con Napolitano non si sa - del comportamento dei pm di Palermo. Si ritorna così alle intercettazioni che hanno occupato gran parte delle cronache estive, e alle infinite polemiche per arrivare a una legge che ne modifichi la disciplina della loro pubblicazione. Soprattutto quelle «non rilevanti» sul piano processuale. Ma anche in questo caso si tratta perlopiù di discussioni superflue o strumentali. Perché le conversazioni di Napolitano, già giudicate irrilevanti, non sono state rese note, nemmeno nell'avventuroso articolo di Panorama . Quelle tra Mancino e D'Ambrosio invece, sebbene non contenessero notizie di reato, sono state considerate rilevanti dagli inquirenti in quanto rivelatrici dei timori e dello stato d'animo di chi, a loro giudizio, nascondeva la verità. E dunque destinate, prima o dopo, a diventare comunque pubbliche.

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