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Giuseppe Gulotta, 22 anni in prigione. 'In galera da innocente. Perché?' PDF Stampa E-mail
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Scritto da Nicola Biondo   
Venerdì 13 Agosto 2010 10:26

Di sicuro c’è solo che è innocente. Innocente ma con 22anni di galera alle spalle. Innocente ma accusato di strage. È la storia di Giuseppe Gulotta e di un eccidio senza colpevoli, quello di Alcamo Marina, provincia di Trapani, avvenuto il 27 gennaio 1976 e che costò la vita ai carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta.
Giuseppe Gulotta nel 1976 aveva 18anni. «Fu una cosa terribile, in paese ne parlavamo tutti. Due giovani carabinieri, quasi miei coetanei, trovati uccisi in una piccola caserma di fronte al mare». Delitto inspiegabile, misterioso. Uccisi nel sonno, la serratura fusa dalla fiamma ossidrica, pistole e divise che spariscono.
Una vita serena, di provincia, quella di Giuseppe.Non poteva immaginare che di lì a poco sarebbe finito nel tritacarne di un mistero di Stato. Lui che di politica nulla sapeva. Anni 70, roba per stomaci forti, quando i sogni di un mondo migliore stavano svanendo in un delirio di piombo.
 

«La mia era una vita di lavoro. Prima dal barbiere, poi muratore. Ero un ragazzino riservato, timido con le ragazze». L’unico lusso una vespa arancione, qualche sera in pizzeria e in discoteca, «ma io facevo tappezzeria » ricorda Giuseppe. Sempre in compagnia di Gaetano e Vincenzo, gli amici con cui era cresciuto.
Quando i due carabinieri vengono uccisi, Giuseppe sta aspettando una chiamata dalla Guardia di Finanza dopo aver sostenuto tutti gli esami. Ad Alcamo arrivano due squadre di investigatori, quella del colonnello Giuseppe Russo, un mastino dell’antimafia, e quella dell’antiterrorismo di Napoli. Scatta la caccia all’uomo. Il movente è politico, è terrorismo. Due carabinieri morti esigono un colpevole, a ogni costo.
E a pagare il prezzo sono quei tre amici inseparabili: Giuseppe Gulotta, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli. A chiamarli in causa è un altro ragazzo di Alcamo, con il quale a volte uscivano: Peppe Vesco.

È un tipo particolare Vesco, un po’ naif: un chiacchierone che al bar parla di rivoluzione, di anarchia e che ha perso una mano in un incidente.
In paese lo chiamano Peppe ’u pazzo. È il 12 febbraio 1976. Il tritacarne è in azione. Lo mettono in moto una decina di carabinieri agli ordini del colonnello Russo. Vesco viene arrestato per un’infrazione. Nella sua macchina i carabinieri trovano una pistola. In caserma Vesco viene sottoposto a torture indicibili: botte, scosse elettriche, costretto a bere acqua e sale. Prima nega qualsiasi coinvolgimento nella strage poi dice che la refurtiva sottratta sul luogo del delitto si trova in casa di un bottaio, Giovanni Mandalà, dove viene recuperata. Poi altre torture. Alla fine ammette: ho fatto la strage con i miei amici Gulotta, Ferrantelli e Santangelo. È la svolta: i tre ragazzi vengono arrestati e dopo una notte da film horror confessano tutto. Tutto ciò che non avevano mai fatto.

«La mia innocenza è nelle carte» dice Gulotta che oggi, dopo 22 anni di carcere da innocente, con il processo di revisione in corso, racconta a l’Unità la sua storia. Ci sono carte che grondano sangue e lacrime. Le lacrime e il sangue di Gaetano Santangelo, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli. Le carte, quelle in cui si autoaccusano, sotto tortura, della strage. Sono le 10 di sera del 12 febbraio 1976. I tre ragazzi, dopo la denuncia di Vesco, sono in stato di fermo. «Stavo riparando il bagno di casa. Fui portato in caserma». Siamo ad Alcamo, provincia di Trapani, Italia. Ma potrebbe essere l’Argentina dei generali, il Cile di Pinochet, un gulag sovietico o una prigione talebana. Da mezzanotte all’alba Giuseppe Gulotta viene torturato come un desaparecido. Perché per tutti, lui, quel 18enne timido che voleva indossare la divisa della Finanza, ufficialmente non è lì. Il verbale di arresto segnala che Gulotta arriva in caserma alle 5 del mattino e non alle dieci di sera.

Ecco il racconto dell’orrore: «Verso mezzanotte mi legano mani e piedi a una sedia. Provo a divincolarmi e spezzo il bracciolo della sedia.
Iniziano a urlare che li avevo uccisi io i due carabinieri. Ovviamente nego. Mi circondano, sono una decina, tutti carabinieri in divisa. Mi picchiano in faccia, mi sputano addosso. Calci e pugni. Urlano: sei stato tu, dillo. I tuoi amici hanno ammesso tutto». Non era vero. In quei momenti uguale trattamento subivano Gaetano e Vincenzo.
Spunta anche una pistola che scortica la faccia di Gulotta. «Se non confessi ti ammazziamo», minacciano. «Uno da dietro mi teneva la testa, mentre un altro carabiniere mi schiaffeggiava». Era il colonnello Russo che Gulotta riconoscerà molti anni dopo. «Quando smise, un altro prese a strizzarmi i genitali. Non finivano più». Russo finirà ucciso l’anno dopo e per uno strano caso anche lì ai sospettati verrà estorta una confessione sotto tortura. In realtà il colonnello venne ucciso da Leoluca Bagarella, allora giovane boss emergente.
Carte che grondano sangue. È il verbale della confessione di Giuseppe. «Era l’alba quando mi arresi alle botte». «Ditemi quello che devo confessare, basta che non mi picchiate più» dice agli aguzzini in divisa. «Si fermarono. Mi portarono in un’altra stanza e mi ammanettarono a un termosifone.

Ero una maschera di sangue. Accanto a me c’era un avvocato, una donna giovane che fumava, non mi degnò di uno sguardo. Firmai il verbale di confessione, avevo solo diciotto anni». La dignità non abitava in quella caserma, quella notte. C’è solo un carabiniere che non viene contagiato da quell’isteria collettiva. «Gulotta mi sembrò un pulcino impaurito e bagnato» ricorda oggi.
Dopo la confessione estorta Gulotta viene portato a Trapani in carcere e poi nel pomeriggio si trova di fronte ai vertici della procura, Genco e Lumia.
«Ero in uno stato pietoso. Stavo per dirlo anche a una guardia carceraria cosa avevo subito ma il carabiniere che era con me mi strinse forte il braccio. Mi ricordo bene cosa disse: “Scrivete che è scivolato in caserma su una buccia di banana”». Ancora carte che sanguinano. «La frase finì nel verbale – dice Gulotta – I miei abiti pieni di sangue sparirono». Raccontò tutto anche ai magistrati. «Dissi che ero innocente, dissi delle torture. Non potevo immaginare che l’avrei ripetuto a decine di altri per altri 30 anni. Non successe nulla». A parte quella confessione a suon di botte, non c’è nulla che somigli a un’indagine sulla strage di Alcamo Marina.

Non viene appurato con un esame, lo stub, se i quattro sospettati hanno usato armi, non si accerta il loro alibi, non si cercano altri testimoni. Vesco esce di scena nell’ottobre del 1976 dopo aver ritrattato le accuse: privo di una mano si impicca in carcere. Una versione inverosimile ma ufficiale: altre carte insanguinate. Muore con lui una delle possibilità per capire.
Tra assoluzioni e condanne intanto Gulotta sconta 2 anni e 3 mesi di carcere. Nel 1988 ha un figlio da Michela la sua attuale compagna. Nel ’90 la sentenza definitiva: ergastolo. Inizia
a scontarlo, da innocente. Con una forza sovraumana. «Avevo degli obiettivi: la revisione del processo e aspettare i primi permessi per ritornare in famiglia. Ho sempre sperato nella giustizia ». Un detenuto modello, mai una protesta, mai pensato a fuggire, a sottrarsi a quella condanna ingiusta. Gli altri due, Ferrantelli e Santangelo, invece scappano in Sudamerica. Lui no: rimane in carcere, chiede la revisione, trova nella sua compagna e nei figli un baluardo contro l’assurdo dolore. «Ho accettato il corso della giustizia. Non volevo fuggire, volevo giustizia». E la giustizia – o quel che ne rimane - arriva nel 2008, trentadue anni dopo l’infamia. Riappare quel carabiniere che vide Gulotta, «il pulcino bagnato e impaurito», subire le torture.

È Renato Olino e decide di parlare. Si innesca così il meccanismo che porta al processo di revisione. Il 24 giugno scorso Olino racconta tutto davanti alla Corte di Reggio Calabria.
Ha riavvolto il film di quella notte, di quel branco di lupi in divisa che non la smetteva di picchiare, che non voleva la verità ma solo un colpevole, uno qualsiasi. Il 22 luglio 2010, dopo 22 anni di detenzione, Gulotta esce dal carcere in libertà vigilata.

«Vorrei sapere chi e perché mi ha fatto questo. Ho iniziato a documentarmi.
Siamo finiti in una vicenda enorme, legata ai misteri di questo paese. Io voglio capire cosa è successo ad Alcamo, in Sicilia, in Italia in quegli anni. Ci sarà qualcuno che mi dirà in che razza di storia sono finito, da che parte stavano i carabinieri, da che parte stavano i giudici. Siamo stati i capri espiatori di una cosa molto più grande di noi che non si doveva conoscere. Questo è stato il modo in cui alcuni carabinieri hanno creduto di fare giustizia dei loro colleghi uccisi?». Come tutti i misteri italiani dietro la strage si intravedono 007 e traffici di armi, trame e segreti: il tritacarne di Stato in cui è caduto Gulotta.

Recentemente la procura di Trapani ha aperto due inchieste. Una sulla morte dei due militari, l’altra su 4 carabinieri accusati di sequestro di persona e lesioni gravissime: sono Giuseppe Scibilia, Elio Di Bona, Giovanni Provenzano e Fiorino Pignatella.
Due indagini che potrebbero rispondere alla domanda di Gulotta: perché? Gli indagati si sono avvalsi della facoltà di non rispondere anche se per quei reati, per quelle torture è già scattata la prescrizione. «Questo mi fa rabbia – dice Gulotta – perché ancora una volta negare la verità? Che Stato è quello che condanna un innocente e permette a un colpevole, che è anche un carabiniere, di tacere la verità?». Coltiva anche un sospetto terribile. «In tanti conoscevano la verità. Credo che Olino l’avrebbe potuta dire prima ma i tempi non erano maturi, qualcuno gli ha consigliato di tacere, per trent’anni». Nessuno ha chiesto scusa a Gulotta. «Solo Olino. Dopo la sua testimonianza si è venuto a sedere vicino a me. Per un attimo ho provato quasi timore. Mi ha guardato e mi ha detto, “Alzati Giuseppe”.
Mi ha abbracciato forte: “Scusami, anche a nome dei miei colleghi”. Nessun altro si è fatto sentire».


Nicola Biondo (Tratto da: L’Unità, 12 agosto 2010)





Intervista a Renato Olino: «Volevano nascondere chi c’era dietro la strage L’ho detto subito ma… »

«Ho la consapevolezza che senza la mia testimonianza Giuseppe Gulotta avrebbe perso per sempre ogni speranza. Mi sentivo custode delle chiavi delle sue catene».
Parla Renato Olino (nella foto, ndr), l’ex-carabiniere che con la sua testimonianza ha permesso il processo di revisione per Giuseppe Gulotta condannato per la strage di Alcamo Marina. «Testimone attendibile» per la Procura di Trapani che, anche grazie alle intercettazioni telefoniche, ha indagato quattro carabinieri per le torture subite da Gulotta e gli altri tre indagati per l’eccidio del gennaio ’76. Una testimonianza inedita che rivela come Olino nel corso degli anni provò a far venir fuori la verità sulle indagini che portarono sul banco degli imputati tre innocenti, poi condannati all’ergastolo.

Lei ha lavorato in Sicilia e all’antiterrorismo di Napoli. Ha partecipato alle indagini sulla strage di Alcamo Marina. Può dirci che idea ha maturato in questi anni?

«Vi fu una rivendicazione delle Br ma era falsa, nel senso che non furono i brigatisti a fare la strage. Chi aveva interesse a depistare le indagini? C’era un elemento nella rivendicazione che ci indusse a pensare che chi l’aveva scritta era stato davvero sul luogo della strage. Alla luce delle conoscenze che oggi abbiamo delle collusioni tra mafia e pezzi dello Stato, nasce il mio convincimento che la strage di Alcamo Marina sia maturata nell’ambito di un avvertimento mafioso».

La scelta di trovare tre capri espiatori è stata voluta per “blindare” la verità su quella strage o fu invece frutto di un’assurda scelta investigativa?
«Torturare i sospettati non era un caso raro in quegli anni. Alcuni miei colleghi sapevano che facendo confessare degli innocenti avrebbero blindato le indagini nascondendo la reale portata della strage. La conferma è nella morte di Vesco, il principale accusatore, anche lui torturato».

Perché?
«Come poteva Vesco, con una sola mano, impiccarsi, dopo aver richiesto un colloquio con i magistrati? Lo stesso Vesco poco prima di suicidarsi aveva scritto una lettera, poi pubblicata dalla rivista Controinformazione, nella quale descriveva le torture subite, e ribadiva l’estraneità degli accusati. Quello scritto si concludeva così: “Se mi trovate morto mi hanno suicidato”. Morì poco tempo dopo e con lui la possibilità di fare luce in tempi ragionevoli».

La sua testimonianza che ha consentito di aprire il processo di revisione è arrivata 32 anni dopo i fatti. Perché così tanto tempo?
«Credevo fino al 2008 che Gulotta e gli altri due ragazzi fossero stati assolti. E poi non è vero che ho parlato così tardi».


Si spieghi.
«Intanto contestai subito al colonnello Russo i suoi metodi. Ma venni messo a tacere dai risultati conseguiti, quando Vesco crollò e fece ritrovare le armi, le divise trafugate dopo la strage alla caserma… Il sistema aveva funzionato, ormai Vesco era pronto ad accusare ed accusarsi di tutto».

Ne parlò con altre persone in questi anni?

«Certo. Mi ero già dimesso dall’Arma quando nell’estate del 1977 mi presentai all’attendente del generale di divisione a Napoli. Volevo essere ricevuto e consegnare un mio scritto. Non me ne diedero l’occasione. “Lasci perdere” mi dissero”. Ormai ero cosciente dell’inutilità delle mie dimissioni dall’Arma. Nessuno mi aveva mai chiesto il perché».

Gulotta ha dichiarato all’Unità di avere il sospetto che in molti sapessero ma che solo ora i tempi fossero maturi per venire a conoscenza di una parte di verità. Lo credo anche lei? Ci furono altre persone con cui parlò di quella notte?
«Certo. Uno fu Mimmo Pinto, ex-deputato radicale, nel 1983. Gli ho appena parlato e lui è rimasto sorpreso perché dice di non ricordare assolutamente nulla».

E poi?
«Nel1990 fui convocato per tutt’altra vicenda, da due magistrati romani, mi pare fossero i pm Palma e Ionta. A Palma accennai della vicenda. Poi all’uscita da quel colloquio incontrati dei giornalisti, uno lo conoscevo da tempo perché era in buoni rapporti negli anni 70 con il colonnello Russo. Gli parlai di tutto».

E cosa le disse?

«Di lasciare perdere. Che mi sarei messo contro l’Arma, che i miei colleghi che avevano torturato i ragazzi non avrebbero mai ammesso nulla. Gli ho ripetuto le stesse cose anni dopo, ma fu inutile, un muro di gomma. Non volle scrivere nulla. Gli dissi anche che volevo parlare con il maresciallo Scibilia che avevo visto prendere parte alle torture. Seppi poi che lui era in stretti rapporti proprio con Scibilia che oggi è indagato. I nomi di questi giornalisti ovviamente li ho fatti ai magistrati che oggi indagano».

Arriviamo al 2008 quando lei decide di parlare.
«Vedo una trasmissione tv condotta da Carlo Lucarelli che parla della strage. Entro in contatto con Caterina, la nipote di Gulotta, e vengo a sapere che lui sta scontando l’ergastolo. Le promisi allora, fra le lacrime, che da quel momento non avrei avuto altro motivo di vita se non quello di spezzare le catene a suo zio».

Lei ha ricostruito con la procura Trapani le torture consumate ai danni di Gulotta e degli altri due ragazzi. Cosa le rimane ancora dentro?
«Quel film dell’orrore è impresso nella mia mente e determinò, dopo alcuni mesi, la mia decisione di abbandonare la divisa dei carabinieri. Provavo vergogna e disagio, avevo violato un giuramento. Poco importa che non torsi un capello a nessuno quella sera, come invece qualche giornalista ha scritto. Mi sono sempre sentito moralmente responsabile delle conseguenze del comportamento vergognoso che i miei superiori, che sentivo anche come miei maestri, ebbero quella notte. Non trovai il coraggio di richiedere la presenza di un magistrato e porre fine alle torture. Con il nostro comportamento abbiamo agevolato chi ha realmente ucciso i colleghi di Alcamo Marina, un altro mistero italiano insoluto. Spero che la mia tardiva testimonianza sia ancora utile per riparare agli errori ed agli abusi commessi».


Nicola Biondo (articolo tratto da L'Unità, 12 agosto 2010)



LINK:

1) La strage della casermetta di Alcamo Marina (dal BLOG di Roberto Scurto, 13 novembre 2009)
2) La puntata della trasmissione BLUNOTTE 'Sicilia Nera' (Caro Lucarelli, RaiTre, 6 novembre 2009)















 

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Francesco Grasso  - OLIGARCHIA DEMAGOGICA   |2010-08-13 20:04:34
E' la definizione corretta a questo regime che ci opprime e del quale ci
dobbiamo liberare .
Liberare con l'osservanza rigidissima dell'ordinamento
giuridico,talmente rigida ed estesa da costituire una rete della legalità che
impedisca alla ragnatela dell'illegalità di operare.
E' IL COMPITO DELLA
RESISTENZA!
Il caSo in argomento,non isolato,ne è la dimostrazione
incontrovertibile.
ALLE FORZE DELLA RESISTENZA DEVONO ESERE CHIAMATE TUTTE LE
PERSONE O GRUPPI CHE CREDONO NELLA LEGALITA'

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