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Il Rebus Spatuzza PDF Stampa E-mail
Documenti - I mandanti occulti
Scritto da Giuseppe Lo Bianco - Sandra Rizza   
Domenica 14 Giugno 2009 11:26
‘’È venuto il momento di parlare. Ci sono troppi  innocenti in galera e troppi colpevoli in libertà’’. Così Gaspare Spatuzza, l’ex reggente della famiglia mafiosa di Brancaccio, esordisce davanti al procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, alla fine dello scorso giugno. In un lunghissimo colloquio investigativo, il boss detenuto da undici anni al 41 bis racconta la sua verità sulla stagione del terrorismo mafioso che ha insanguinato il paese all’inizio degli anni Novanta. E in particolare sulla strage di via D’Amelio, la pagina più oscura ed inquietante di quella sfida alle istituzioni. Ma c’è un problema. I verbali di Spatuzza sono già diventati un incubo per i magistrati di Caltanissetta che lo hanno interrogato più volte.

L’aspirante pentito, infatti, non parla di rapporti mafia-politica, non fa i nomi dei mandanti occulti, non rivela imbarazzanti contatti dei killer con apparati deviati dello Stato. Semplicemente attribuisce a se stesso il ruolo di un altro pentito, Vincenzo Scarantino, il teste-chiave del processo-Borsellino, l’uomo che si autoaccusò di aver commissionato il furto della 126 utilizzata nella strage di via D’Amelio a due balordi, Salvatore Candura e Luciano Valenti, e che poi fece i nomi dei componenti del commando mafioso. Spatuzza incredibilmente racconta lo stesso fatto. Parla della stessa auto. Ma dice che fu lui a rubarla. E dice di averla consegnata a complici che in parte non sono quelli indicati da Scarantino. Nel suo racconto, spariscono i componenti della famiglia mafiosa di Santa Maria del Gesù e restano solo quelli della cosca di Brancaccio. Il quadro della manovalanza mafiosa della strage, dunque, cambia radicalmente. E gli inquirenti si ritrovano davanti ad un vero e proprio rebus.




Il rebus Spatuzza

Da una parte le parole del proto-pentito Scarantino, che sono ormai scolpite nel marmo di una sentenza definitiva della Cassazione. Dall’altra quelle di Spatuzza che fanno passare Scarantino per un visionario. A chi credere? Se Spatuzza oggi dice la verità, è chiaro che Scarantino ha sempre mentito. Ma come faceva Scarantino – è la domanda che gira negli ambienti giudiziari – alla fine del ’92 a sapere che proprio quella 126 era stata utilizzata per la strage? Già. Perchè Spatuzza parla della stessa autovettura, rubata per essere imbottita di esplosivo. E allora? C’è qualcuno - si chiedono oggi i magistrati - che, a suo tempo, ha imbeccato Scarantino? E perchè? I pm di Palermo e Caltanissetta non nascondono la loro preoccupazione, testimoniata dal fatto che fino ad ora Spatuzza non ha ottenuto alcuna patente di ‘’collaboratore’’ e conseguentemente neppure le adeguate misure di protezione. Un pm, che vuole restare anonimo, analizza così la situazione: ‘’All’inizio ho pensato addirittura che avessero rubato due auto, sperando che le parole di Spatuzza fossero compatibili con quelle di Scarantino. Ma non è così : l’auto è una sola, ed è la stessa 126 che fu rubata a Pietrina Valenti, nella borgata della Guadagna, alla metà di luglio del 1992’’.


È l’auto che Scarantino racconta di aver consegnato al boss di Santa Maria di Gesù Pietro Aglieri e ai mafiosi di Brancaccio Lorenzo Tinnirello e Ciccio Tagliavia, e che da loro fu posteggiata davanti al portone dello stabile di via D’Amelio, la mattina di domenica 19 luglio 1992, poche ore prima dell’esplosione. Spatuzza invece, oggi dice che quella stessa auto fu lui a rubarla, il sabato sera, alla vigilia della strage, insieme a Vittorio Tutino, picciotto della cosca di Brancaccio. E aggiunge di averla lasciata all’interno di un garage nella zona dei Cantieri navali, e di averla consegnata a Fifetto Cannella, altro uomo d’onore del clan di Brancaccio, già condannato all’ergastolo per la strage. Spatuzza rivela infine che, nel tragitto in auto, fu seguito da Lorenzo Tinnirello (condannato all’ergastolo per via D’Amelio), e che, consegnando l’auto, vide nel garage il vice-capo di Brancaccio Nino Mangano. Scarantino sostiene che ad incaricarlo del furto della 126 fu suo cognato Salvatore Profeta, fedelissimo del boss Pietro Aglieri. Spatuzza dice invece che a lui l’incarico venne affidato dal boss di Brancaccio Giuseppe Graviano. Aglieri, insomma, esce di scena, quanto meno dalla fase esecutiva della strage. E con lui anche Profeta. Una corsa contro il tempo. Ora, delle due l’una: o Spatuzza è un bugiardo, oppure lo è Scarantino. Per questa ragione la procura di Caltanissetta ha consegnato, a tempo di record, le prime due deleghe di indagini alla Dia nissena per ricostruire nei dettagli l’intera vicenda, anche incrociando le dichiarazioni tra i due testi, ed evidenziando i punti di contatto e quelli di attrito. Non solo. I pm non escludono neanche di disporre un confronto tra i due sedicenti ladri della 126: Spatuzza e Scarantino. Il tempo, infatti, stringe. La legge stabilisce un periodo massimo di 180 giorni per verificare l’attendibilità di un dichiarante ed inserirlo nel programma di protezione. Per Spatuzza quel termine sta per scadere: c’è tempo solo fino a Natale. Dice il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari: ‘’Stiamo esaminando con estrema attenzione l’attendibilità del dichiarante, speriamo di arrivare con i colleghi della procura di Palermo ad una valutazione congiunta sulla sua credibilità’’. 


A Palermo, infatti, Spatuzza ha commesso una serie di omicidi dei quali si è autoaccusato, anche se per la stragrande maggioranza di essi era già stato condannato, in qualche caso con sentenza definitiva. Per la strage di via D’Amelio, invece, finora il dichiarante non era mai stato indagato. Eppure Spatuzza parla essenzialmente di questa strage, e le sue parole minacciano oggi di smontare l’impianto dell’inchiesta, sollevando pesanti interrogativi sulla gestione delle indagini che ruotavano attorno a Vincenzo Scarantino. E aprendo la strada ad una possibile revisione giudiziaria per tutti i condannati chiamati fuori dal nuovo dichiarante. Anche se gli avvocati della difesa sono i primi a manifestare cautela. ‘’Guardiamo con attenzione alle parole di Spatuzza che abbiamo appreso dai giornali – dice l’avvocato Rosalba Di Gregorio, difensore di Pietro Aglieri e di alcuni imputati della cosca di Santa Maria di Gesù – ma in questo momento riteniamo sia più utile attendere l’evoluzione delle indagini. Quando gli input investigativi sono arrivati dai collaboratori di giustizia, o aspiranti tali, le nostre cautele in questo processo sono sempre state massime. L’esperienza di Scarantino, creduto soltanto per una parte minima delle sue dichiarazioni al termine di una elaborazione che non esistiamo a definire sconcertante, lo dimostra’’.




Se Spatuzza è genuino

La collaborazione dell’operaio della Guadagna, infatti, ha una storia ricca di colpi di scena. Tra accuse e ritrattazioni, Scarantino si presenta fin dal primo momento come un pentito ‘’anomalo’’, le cui dichiarazioni vengono immediatamente accolte a Caltanissetta e considerate con estremo scetticismo a Palermo. I primi a dubitare di lui sono proprio gli stessi uomini d’onore, poi pentiti: Salvatore Cancemi, Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera. I tre, messi a confronto con il picciotto della Guadagna, lo trattano come uno sconosciuto, a digiuno delle regole e del linguaggio di Cosa nostra. Non solo. Anche altri due pentiti, Giovanni Brusca e Giovan Battista Ferrante, condannati per la strage di Capaci, non hanno creduto alle parole di ‘’Enzino’’ su via D’Amelio. Entrambi hanno detto che  in carcere, accusati da Scarantino ‘’vi sono persone innocenti’’. E non è tutto. Al termine di una lunga serie di interrogatori, nei quali Scarantino si autoaccusa di numerosi omicidi, l’ex  pm di Palermo Alfonso Sabella decide di non utilizzare le sue parole, considerandolo inattendibile. Quest’anno Sabella, giudice presso il tribunale di Roma, si spinge a dubitare della solidità dell’intera indagine su via D’Amelio, ben prima delle rivelazioni di Spatuzza. ‘’La ricostruzione della vicenda – scrive Sabella in un libro di memorie – pur consacrata dalla Cassazione, in verità non mi ha mai convinto fino in fondo e ritengo che il commando di morte non fosse quello di Santa Maria del Gesù agli ordini di Aglieri. Penso che, invece, si trattasse degli uomini di Brancaccio. Ma è solo una mia opinione’’. Che coincide perfettamente con le nuove rivelazioni di Spatuzza.


Non è il solo a pensarla così. All’interno della procura di Palermo, in questi giorni, c’è chi guarda con attenzione alle nuove dichiarazioni dell’ex reggente di Brancaccio, avendo da sempre ritenuto Scarantino, nonostante le sentenze della Cassazione, poco credibile. ‘’Rispetto ovviamente la pronuncia della Cassazione – dice uno dei pm che ricorda perfettamente quei verbali finiti nel cestino della carta straccia – ma i punti da approfondire sono ancora tanti. Con una considerazione: qui a Palermo le parole di Scarantino non hanno mai avuto credito’’.  Non solo. C’e un investigatore, che ha indagato a lungo sui misteri di via D’Amelio, che a Scarantino ha creduto solo in parte. Si chiama Gioacchino Genchi, è vice-questore aggiunto ed è probabilmente il maggiore esperto in tema di indagini informatiche in Italia. Poco dopo la strage, analizzando una serie di tabulati telefonici, Genchi individua una possibile base dei killer nel Castello Utveggio, sede del Cerisdi, un centro di formazione per manager, che sorge sul monte Pellegrino proprio sopra la via D’Amelio. Genchi scopre che un presunto boss, Gaetano Scotto, poi condannato all’ergastolo per la strage, alcuni mesi prima dell’esplosione chiama un telefono fisso del Cerisdi. Il vice-questore compie allora una serie di accertamenti sul personale che ruota attorno a quel Centro di eccellenza, e si convince che in quel Castello ha operato sino al dicembre 1992, sotto copertura, un ufficio del Sisde. Proprio in quel periodo, siamo nel settembre del 1992, viene arrestato Scarantino, le indagini di Genchi si bloccano e il vice-questore rinuncia all’ incarico.  Dice oggi Genchi: ‘’La vicenda del Castello, purtroppo, è stata per troppo tempo un utile pretesto per quanti hanno voluto chiudere frettolosamente ogni approfondimento sui mandanti esterni a Cosa Nostra, nella preordinazione e nell’esecuzione della strage di Via D’Amelio, che sembra concepita in ben altre sedi’’.


Su Scarantino, poi, Genchi ha un’idea molto precisa. ‘’Io non mi sono mai bevuto tutte le sue idiozie - dice - ma non per questo si possono smentire delle acquisizioni processuali che vanno ben oltre le sue ondivaganti e contraddittorie dichiarazioni’’.  Per Genchi, insomma, il furto dell’auto l’ha commissionato Scarantino, anche se le successive dichiarazioni del pentito, tendenti ad accreditarsi come boss, sarebbero inventate di sana pianta. Alle perplessità di Genchi, d’altronde, sembrano dar ragione anche i giudici del processo Borsellino-ter che, nella sentenza, scrivono a proposito di Scarantino: la sua collaborazione ha provocato ‘’un notevole dispendio di risorse investigative… nel gravoso sforzo di discernere le poche verità dalle molte menzogne che hanno infarcito le sue dichiarazioni’’.  Fin qui i dubbi di chi ha indagato a lungo sulla strage di via D’Amelio, che costò la vita a Paolo Borsellino e a cinque agenti della sua scorta. Fin qui le riflessioni che potrebbero riaprire il capitolo di via D’Amelio, già chiuso con il bollo della Cassazione.





Se Spatuzza è un sabotatore

Ma se Scarantino è un bugiardo, è credibile che il suo bluff, confermato da una serie di indagini sul campo, possa aver ingannato i valenti investigatori del gruppo ‘’Falcone-Borsellino’’ e  i magistrati della Procura di Caltanissetta coordinati da Giovanni Tinebra? E come spiegare le doti ‘’medianiche’’ di Scarantino che è il primo a rivelare marca, tipologia e nome della proprietaria dell’auto-bomba rubata (informazioni oggi confermate anche da Spatuzza) se si tratta di un pentito fasullo? Domande che rimbalzano tra Caltanissetta e Palermo, e che consigliano ulteriore cautela nella attribuzione della patente di pentito al killer di Brancaccio. E a consigliare ulteriore cautela c’è anche  - fanno notare gli inquirenti - una dichiarazione di Nino Giuffrè, l’ex braccio destro di Bernardo Provenzano, poi diventato collaboratore di giustizia, che rivelò di aver avuto da Pietro Aglieri o dal suo vice Carlo Greco l’incarico nel ’93 di cancellare le tracce di una presenza di Scarantino all’hotel Lido Vetrana di Trabia (Palermo), la domenica della strage, dove l’operaio della Guadagna aveva detto di essersi intrattenuto con una donna. Il favore sarebbe stato chiesto a Giuffrè per far sparire un importante riscontro alle parole di Scarantino. Provenzano, dando a Giuffrè il via libera, così gli parlò del picciotto della Guadagna: ‘’Questo cornuto, se non lo fermiamo in tempo, ci rovina tutti’’. Questo episodio, secondo alcuni magistrati, dimostrerebbe che Scarantino, come pentito, fin dal primo momento è considerato un elemento molto pericoloso da Cosa nostra, proprio perchè attendibile.


Lo scetticismo nei confronti di Spatuzza - sostengono i magistrati - è infine alimentato dalle sue stesse parole. E da un dato scovato dalla Dia in carcere. Per screditare Scarantino, il killer di Brancaccio avrebbe vantato una particolare competenza nella tecnica dei furti d’auto, sbeffeggiando quella descritta dal suo antagonista, che disse di aver adoperato uno ‘’spadino’’, una sorta di coltellino, per aprire la 126. ‘’Se qualcuno vi ha parlato dello ‘spadino’ ha sbagliato - ha detto Spatuzza – lo sanno tutti che non è possibile aprire quel tipo di macchina in quel modo’’. Il particolare dello ‘’spadino’’ è autentico, ed è un dettaglio contenuto nelle carte processuali e riportato in alcuni resoconti giornalistici. Ciò dimostra - fanno notare gli inquirenti - che l’aspirante pentito conosce gli atti giudiziari su via D’Amelio. Non solo. Spatuzza, hanno scoperto gli investigatori, è stato il dirimpettaio di cella di Salvatore Profeta, il cognato di Scarantino condannato all’ergastolo per l’uccisione di Borsellino, e con cui Spatuzza avrebbe potuto avere contatti potenziali finalizzati a scagionarlo. Tutti elementi – sostiene chi indaga – che giocano a sfavore della sua ‘’genuinità’’.


Ma se Spatuzza mente, se le sue sono solo bugie, che senso dare allora alla sua manovra? Agisce in proprio o per conto terzi? Si tratta di un pericoloso ‘’sabotatore’’ dell’inchiesta blindata dalla Cassazione con l’obiettivo di minare la credibilità dello Stato? Oppure di un detenuto stanco del 41 bis che punta esclusivamente a conquistare qualche beneficio personale? In fondo, fa notare un investigatore, tra pochi mesi Spatuzza ‘’festeggera’’’ i dodici anni di detenzione, tutti passati sotto il regime di carcere duro. Se ottenesse il programma di protezione, potrebbe facilmente ambire agli arresti domiciliari fin dal prossimo luglio. Cosa nasconde il rebus Spatuzza? E chi è Gasparino ‘’u tignusu’’ (il calvo), coinvolto nelle stragi di Firenze, Roma, Milano e nel fallito attentato a Formello al pentito Totuccio Contorno? Non è certo un personaggio secondario nel firmamento dei big di Cosa nostra.




L’ armiere di Brancaccio

Ritualmente '’combinato'’ nell’organizzazione mafiosa nel 1996, ma già ricercato dal '94, Spatuzza, oggi 41enne, è considerato uno dei più pericolosi killer del clan di Brancaccio. Di lui parlò per la prima volta il pentito Giovanni Drago, che nel 1992 lo conosceva come  un ''semplice fiancheggiatore della cosca dei Graviano''. Spietato, ambizioso, infallibile con le armi - così lo descrivono i pentiti - Spatuzza esordì come killer al servizio di Nino Mangano che, dopo l’arresto dei Graviano era diventato il capo mandamento di Brancaccio. Ma non solo. Spatuzza, grazie alle sue qualità di tiratore, in poco tempo era diventato anche un fedelissimo del boss Leoluca Bagarella. La sua specialità secondo i pentiti, era ‘’dare la battuta’’, indicare cioè ai sicari l'esatta posizione del ‘’bersaglio" e il momento più favorevole per l'agguato. Tra i delitti che gli vengono attribuiti, ci sono le stragi del ’93 (anche quella di via D’Amelio), c’è la partecipazione all'omicidio di padre Pino Puglisi, assassinato a  Brancaccio il 15 settembre del 1993. E adesso, dopo le nuove rivelazioni, è indagato anche per la strage di via D’Amelio e per l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, il bambino, figlio di un pentito, rapito e strangolato da Cosa nostra. Ma l’occasione di mettersi in luce arrivò per Spatuzza nella primavera del 1995 quando la cosca corleonese preparava lo scontro armato con il gruppo dei presunti alleati di Pietro Aglieri, gli stessi che oggi con le sue dichiarazioni Gaspare ‘’‘u tignusu’’ indica come ‘’innocenti in carcere’’ per la strage di via D’Amelio. Paradossi di Cosa nostra.


Dopo l’arresto dei boss Bagarella e Mangano, Spatuzza viene proiettato al vertice della cosca di Brancaccio. Resta un fedelissimo dei corleonesi, ma il gruppo è ormai allo sbando colpito a morte, dopo le stragi, dalla reazione dello Stato. Brancaccio è continuamente meta di perquisizioni delle forze dell’ordine, vengono scoperti due depositi di armi, entrambi riconducibili a Spatuzza che sfugge per un soffio alla cattura, per ben due volte. L’ultima, il 7 luglio del ’97, vende cara la pelle: ai poliziotti che lo sorprendono nel piazzale dell’ ospedale Cervello, dove era andato a visitare un complice ferito, lui risponde sparando. Ma viene catturato.


Subito dopo l’arresto, il boss ha una prima crisi e sembra disposto ad avviare immediatamente la sua collaborazione con la giustizia. Ma la moglie, al termine di un drammatico colloquio, si dissocia e glielo impedisce. Ora, dopo tanti anni passati in carcere, Spatuzza ha deciso di saltare il fosso, inviando una lunga lettera ai familiari. Forse dice la verità e vuole salvare ‘’gli innocenti in carcere’’. Forse punta agli arresti domiciliari. Forse è ‘’in missione’’ per conto di qualcuno che ha interesse a sabotare le certezze raggiunte sulla strage di via D’Amelio. È un rebus che si aggiunge alla storia infinita dell’inchiesta sull’uccisione di Borsellino. Un’inchiesta che, a distanza di quasi diciassette anni, è ancora piena di buchi neri. Non si sa ancora dov’era collocato il commando di morte. Non si conosce la provenienza dell’esplosivo. Non si sa che fine ha fatto l’agenda rossa di Borsellino, un documento nel quale il magistrato, negli ultimi mesi della sua vita, annotava le sue riflessioni sulla strage Falcone e sulle indagini in corso.




L’agenda rossa


Su quest’ultimo mistero si attende la pronuncia della Corte di Cassazione che dovrà accogliere o respingere il ricorso della Procura di Caltanissetta sul proscioglimento del tenente colonnello Giovanni Arcangioli, fotografato con la borsa del giudice assassinato, tra le fiamme e il fumo di via D’Amelio pochi minuti dopo l’esplosione, e accusato del furto dell’agenda. Per la Procura, che ha deciso di ricorrere in Cassazione, il proscioglimento decretato dal gip Paolo Scotto Di Luzio, è ‘’una pietra tombale’’ sulla vicenda. E se i movimenti attorno alle auto in fiamme restano ancora indecifrati, il capitolo della trattativa tra mafia e Stato - quel braccio di ferro che, secondo la sentenza d’appello del processo Borsellino-bis, è ‘’l’anomalia che può spiegare l’anticipazione della strage’’ di via D’Amelio - fa registrare invece a Palermo le nuove dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso don Vito Ciancimino. Il giovane imprenditore, già condannato per riciclaggio, sta riempiendo pagine di verbali con la minuziosa ricostruzione di tutti gli incontri tra suo padre e i vertici del Ros, a cavallo tra le due stragi del ’92. Lo stanno interrogando i pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, che hanno riaperto una nuova indagine sui ‘’sistemi criminali’’ in azione in Italia durante la stagione delle stragi. E lo hanno interrogato a lungo anche i pm di Caltanissetta, che coordinano l’ultimo fascicolo rimasto ancora aperto sui mandanti esterni alla strage di via D’Amelio. Un’indagine, quella sui mandanti esterni, che avrebbe potuto essere condotta nei prossimi mesi dal procuratore aggiunto Anna Maria Palma, destinata dal Csm, dopo un’esperienza al Viminale, alla procura nissena. Ma Palma, che negli anni successivi alle stragi fu proprio a Caltanissetta il pm che seguì più da vicino l’evoluzione delle dichiarazioni di Scarantino, nei giorni scorsi ha deciso a sorpresa di rinunciare all’incarico, denunciando stanchezza per una ‘’vita blindata’’ che dura ormai da oltre un decennio. Una insolita marcia indietro. Che apre la strada, verso la poltrona di aggiunto del procuratore Lari, al pm di Palermo Nico Gozzo



Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (27 novembre 2008)

(Articolo tratto dal
numero 6/2008 di MicroMega per gentile concessione degli autori)



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Commenti
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VaronEmanuele   |2009-06-14 19:39:58
Staremo a vedere come andrà a finire, ma tutto questo puzza di DEPISTAGGIO
lontano un miglio: ora che vengono allo scoperto uove verità,scomode e forse
decisive, qualcuno vuole minare alla base la credibilità di ciò che (poco per
ora) è stato accertato.
Speriamo solo che una volta tanto scoprire da dove è
originata questa manovra possa ritorcere l'arma, spesso in italia letale, del
depistaggio contro i suoi stessi "manovratori".
Maria Teresa   |2009-06-16 20:41:42
Lo scenario è molto inquietante e mi auguro che venga fatta piena luce al più
presto
Fabio  - non vogliono la verità   |2009-06-19 00:31:20
Io penso che qualcuno vuole nascondere la verità, adesso spunta questo nuovo
pentito, ma a noi interessa chi ha spinto il detonatore della bomba, penso che
sia piu' importante sapere chi ha premuto il comando della bomba e non chi ha
rubato l'auto. Cercano di depistare perchè Ciancimino sta aprendo nuovi
squarci. Vorrei capire perchè adesso che a Caltanisetta hanno riaperto le
indagini e a Palermo ci sono indagini nuove grazie alle dichiarazioni di
Ciancimino, ho letto ma non ne sono sicuro che ci sono magistrati di Palermo e
Caltanisetta indagati e quindi c'è il rischio che queste indagini si fermino,
ma è tutto vero o c'è qualcuno che non vuole la verità?
Magistrati siciliani
continuate a fare il vostro lavoro per sapere la verità......

PS se uno
porta un'auto con la bomba che puo' esplodere, non si chiede chi spingerà il
tasto, non ha paura che scoppi.........

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