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Lettera aperta di Edoardo Montolli a Radio Radicale sull'emergenza democratica PDF Stampa E-mail
Editoriali - In evidenza
Scritto da Edoardo Montolli   
Sabato 30 Gennaio 2010 10:57
Pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore, la lettera aperta che il giornalista d'inchiesta Edoardo Montolli ha inviato a Massimo Bordin, direttore di Radio Radicale, in occasione della trasmissione radiofonica di Domenica 31 gennaio 2010 nella quale sarà presentato il libro "Il caso Genchi: storia di un uomo in balia dello Stato" (autore Edoardo Montolli, Aliberti editore). La trasmissione andrà in onda dalle ore 17,00 alle 21,00 e vedrà la partecipazione in diretta di Gioacchino Genchi e Marco Pannella che discuteranno assieme a Massimo Bordin dei temi del libro. Il programma sarà radiato sulle frequenze nazionali di Radioradicale ed in diretta streaming sul sito http://www.radioradicale.it/

Egregio Direttore, se ne avrà il tempo, la voglia e l'opportunità, le chiedo di dar lettura a queste mie poche righe durante la lunga diretta in cui ospiterà Gioacchino Genchi su Radio Radicale il prossimo 31 gennaio dalle 17 alle 21, insieme a Marco Pannella.

Non ho mai avuto alcun senso delle istituzioni, istituzioni intese come apparati che facciano valere la ragion di Stato sulla persona e sulla libertà di scelta, criterio che caratterizza l'essenza di ogni individuo.
In questo senso ho sempre creduto che l'affermazione dei diritti civili fosse l'unico grimaldello per ribaltare il concetto di dignità tra Uomo e Stato. E' cioè l'Uomo che dà dignità ad uno Stato. E non viceversa.
Per questo motivo fin da ragazzo ho condiviso quasi tutte le battaglie civili che erano state portate avanti dai radicali fin dagli anni '70, nell'affermazione dell'individuo sulle cosiddette sovrastrutture ideologiche, laiche o religiose che fossero: il divorzio pur non essendomi mai sposato per principio, la liceità d'aborto e il principio di autodeterminazione della donna pur essendo personalmente contro l'aborto, l'obiezione di coscienza, la battaglia sul nucleare, la battaglia contro la lunghezza estenuante della carcerazione preventiva e per la legalizzazione di tutte le droghe, pur non avendo mai provato nemmeno uno spinello. A questo si aggiunga la condivisione dell'idea sull'inutilità (se non peggio) dell'albo dei giornalisti e sull'affermazione del principio di responsabilità dei magistrati, se non in sede civile, quantomeno nel blocco delle promozioni automatiche nel momento in cui un errore giudiziario venisse acclarato.

Nel 1993 arrivai così a prendere l'unica tessera possibile per un giornalista, quella del Partito Radicale Transnazionale, dando fondo a tutti i miei risparmi per racimolare l'esorbitante cifra, per un neodiplomato, di 365.000 lire. E il tutto nel timore all’epoca paventato che la radio che aveva accompagnato la mia adolescenza al posto della musica dei miei coetanei, e cioè Radio Radicale, fosse chiusa. Timore, mi resi successivamente conto, del tutto infondato, perchè altrimenti la Rai sarebbe stata costretta a rinunciare a pacchi, reality e balli sotto le stelle per fare ciò per cui è stata costituita: un servizio d'informazione pubblica.
In questo io non sono mai cambiato. E ho fatto della libera professione giornalistica una durissima ma soddisfacente scelta di vita.
Io.
Ho però dovuto amaramente constatare che chi non solo condivideva le mie idee di principio, ma addirittura le propugnava facendone un vessillo politico, ha cambiato diametralmente opinione con la stessa facilità con cui si cambiano i gusti per un maglione o un'automobile, quasi non fossero le scelte sui diritti civili, scelte che necessariamente dilaniano le coscienze. Mi riferisco solo per citarne un paio, a Marco Taradash o a Francesco Rutelli, giusto per giungere ad un personaggio centrale de "Il caso Genchi", vicenda in cui ogni violazione possibile dei diritti è stata raggiunta. Per arrivare a leggere sul periodico fondato da Mauro Mellini e chiamato pomposamente "giustizia giusta", frasi sul mio libro di questa natura, a firma T.N.:

Non è altresì altrettanto chiaro come un Pubblico Ufficiale (quale è, di fatto, il dottor Genchi) possa pubblicamente rivelare (in questo caso tramite il corposo tomo) atti pertinenti anche ad indagini in corso. Con un’aggravante, per così dire: dalla divulgazione di quei documenti si presuppone che ne derivi un introito derivante dalla vendita dei volumi. Ebbene, ci si chiede: in tasca di chi andranno quegli euro derivati, appunto, dalla vendita di atti raccolti sotto forma di libro? Più che altro, è una domanda che scaturisce da un’altra curiosità: si è forse in presenza di un’altra fattispecie di reato? Peculato? Ricettazione? Interesse privato in atti di ufficio? O cos’altro? Staremo a vedere…

Il che dimostra non solo che l'autore dell'articolo non abbia letto il libro, cosa che invece si dà per scontata in chi decide per mestiere di informare proprio su quello, ma nemmeno la copertina, dove gli sarebbe stato chiaro chi ne è stato l’autore, chi è stato intervistato e su quali altre svariate inchieste il libro abbia spaziato per raccontare l’ultimo ventennio italiano. Trascurando il fatto che Genchi non ha chiesto un euro di royalties per le consulenze in esso riportate, né per un solo viaggio nelle innumerevoli occasioni in cui ci siamo incontrati o in cui continua a presentare il libro che lo vede protagonista, la cosa che mi ha inquietato dell’articolo di “giustizia giusta” è un’altra. Ed è cioè l’analfabetismo giuridico di chi lo ha stilato, ignorando quali siano i diritti di un indagato e cosa siano le memorie difensive depositate in un procedimento penale.
Un analfabetismo giuridico che mai prima d’ora, mi pare, aveva caratterizzato la storia radicale e di chi gli è stato intorno, improntata com'è, questa storia, alla conoscenza meticolosa di ogni norma legislativa.

Nel deserto di voci di chi crede nei diritti civili, mi pare che Marco Pannella sia rimasto l'unico fedele all'idea radicale, con scelte sicuramente discutibili nel modo e nel merito, ma non certo nei principi che ne hanno costellato l'esistenza, nel dare animo alla continua ricerca di libertà dell'individuo, ricerca sbertucciata dal potere pure di fronte all'evidenza di un corpo che anche in tarda età Pannella non esita a martoriare, pur di affermarla.
Mettendo sullo stesso piano puttane e intellettuali e carcerati e politici nel nome sacrosanto dell'uguaglianza e della libertà di scelta. Ed è a lui, ai giornalisti e soprattutto agli ascoltatori di Radio Radicale, che faccio appello consegnando i risultati di nove mesi di inchiesta che hanno portato alla stesura di questo libro. Risultati che mettono in evidenza un'assoluta emergenza democratica, emergenza che il caso Genchi ha manifestato nella sua cristallina chiarezza: quella cioè della genìa di magistrati che fanno avanti e indietro dai ministeri, chiamati prima e dopo a giudicare quella stessa classe politica con cui, a fasi alterne, condividono parte della propria professione e delle proprie giornate. Con consulenze loro e dei loro famigliari, consulenze con la medesima classe politica con cui addirittura trattano le diverse riforme della giustizia e della propria categoria.
Una commistione dei poteri legislativo-esecutivo (ormai inscindibili nel sistema bipolare che ci siamo creati) con quello giudiziario, che farebbe atterrire i padri del diritto e del liberalismo, da Locke a Rousseau a Montesquieu, fino all'Immanuel Kant della Critica della Ragion Pratica e degli imperativi categorici. Una commistione che è però a norma di legge e che altro non può fare che portare ad una perdita di dignità in chi le leggi le fa, in chi le esercita, in chi le giudica. Ma che soprattutto va a creare una evidentissima disparità nell'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, rendendo inutili le montagne di norme che hanno tentato di difenderne il principio, a partire dall'obbligo dell'astensione dei magistrati in determinati casi.
Ed è per questo che vorrei sottoporre l'attenzione su un dibattito nel quale si parli sì di separazione delle carriere dei magistrati. Ma non come la intendono lorsignori di Palazzo Madama e Montecitorio, tra pm e giudici. No. Una legge semplice semplice, che, vedicaso, non ha mai proposto nessuno dell’intero arco costituzionale: ai magistrati che vanno al ministero, così come a quelli che entrano in politica, è fatto divieto di tornare a indossare la toga.
Credo sia l'unico modo perché una democrazia possa non degenerare in altro, evitando che gruppi d'interesse siano in grado a proprio piacimento di cambiare i destini di processi a favore o contro taluni indagati.
Questa è l'emergenza che viene acclarata dal caso Genchi.
Perché, se in una repubblica a sovranità popolare è accettabile che un politico non abbia un livello morale altissimo purchè goda del consenso, ciò non è consentito ad un magistrato. Perchè un magistrato - così come un carabiniere, un finanziere o un poliziotto - è una persona che non è stata eletta, ma che ha scelto volontariamente di esercitare un mestiere nel quale si fa anche e soprattutto carico del diritto e del dovere di togliere alle persone l'unico vero valore fondante di una democrazia: la libertà personale.
Le sarò grato se vorrà dare lettura di questo mio parere.

In fede
Edoardo Montolli 





Notizie sull'autore


Edoardo Montolli, milanese, trentaseienne,  inizia a raccontare storie a diciotto anni: il settimanale della sua città, il quotidiano La Prealpina e una radio locale dove conduce una trasmissione politica. Ma è soprattutto il giornalismo d’inchiesta che insegue. Nel 1996 scopre insieme a Michele Perla l’alfabeto dei furti, il codice usato da alcuni tipi di ladri per svaligiare le case, segnando cancelli, citofoni e porte. Un anno più tardi, dopo aver aperto un ufficio a Rho, scrive articoli e realizza foto per molti gruppi editoriali, quotidiani, settimanali, mensili. Mentre collabora con il Corriere della Sera e vende storie a trasmissioni Rai e Mediaset, il neonato quotidiano La Padania gli affida il service per la cronaca dell’intera provincia di Milano, incarico che manterrà fino al 2001 con lo pseudonimo che il padre usa per suonare la fisarmonica nelle osterie di Milano, Gigi Montero. Alla fine del ’97 riprende a lavorare anche per la radio, con Rtl 102.5 e la trasmissione Radio Zorro di Oliviero Beha.
 
Firma diverse inchieste di copertina per Il Borghese di Daniele Vimercati, e a fine anni ’90 approda a Maxim, dove si specializza in inchieste in prima persona su mondi borderline. Da quelli della notte, al gioco d’azzardo, dalle sette religiose al mondo zingaro. Pubblica lì diverse guide che destano scalpore: la mappa di tutti i luoghi d’Italia dello scambio di coppia, quella delle corse clandestine di auto, la guida alle carceri italiane redatta insieme ad un ex ergastolano graziato (dal rancio peggiore alle squadre di pestaggi). Fino all’inchiesta del gennaio 2000 sulle cavie umane, che fa il giro del mondo. Scova l’esistenza di 17 film inediti di Moana Pozzi e usando i suoi dati raccolti sul fatturato dell’ambiente hard,  un deputato propone la prima porno tax.
 
Si tiene lontano dai riflettori e fa della libera professione una scelta di vita. Nel frattempo collabora così con Oggi, Focus e svariati quotidiani, oltre a periodici di varia natura, usando tre nomi diversi.  Nel 2005 Andrea Monti lo vuole come consulente per la cronaca di News Settimanale. Scrive principalmente di nera e inizia ad occuparsi di criminalità organizzata. Sostiene per primo l’innocenza di Carmine Belli, “il mostro di Arce” assolto tre volte,  e si occupa di casi irrisolti.
Quando il periodico affonda, pubblica inchieste e storie di crimine per Economy, L’Europeo e periodici Hachette, Mondadori e Rcs. Sul settimanale Cronaca Vera, sul quale sta in quel momento terminando un libro, nel 2007 inaugura la rubrica “L’avvocato del diavolo”, prendendo in mano casi chiusi di nera partendo dalle lettere inviate al direttore dai detenuti di mezza Italia. Segue casi di ingiuste detenzioni e errori giudiziari, facendo salire alla ribalta la vicenda del serial killer Ezzedine Sebai, che poi rilancia su Oggi, Panorama e Visto.
Nello stesso anno l’editore Aliberti gli affida la collana di libri Yahoopolis. Porta autori e titoli che la specializzano nel settore del giornalismo d’inchiesta. Tra questi: Inviato in galera di Mario Spezi, Pio La Torre, di Bascietto e Camarca, Il caso De Magistris e Clementina Forleo, un giudice contro di Antonio Massari, Vite Sospese di Adriana Pannitteri, L’uomo di Cogne di Gennaro De Stefano, Boris Giuliano- La squadra dei giusti di Daniele BillitteriMichele Greco- Il memoriale e Mauro De Mauro di Francesco Viviano, Ecoballe di Paolo Rabitti, Elogio dell’evasore fiscale di Leonardo Facco, Toghe che sbagliano di Defilippi e Bosi.
Negli ultimi anni ha curato alcune rubriche, dalla radio ai periodici, da A a Gente Motori, tutte dal noir al crimine.
 
Definito dalla stampa “ultimo erede dei duri d’assalto”, ha pubblicato una biografia non autorizzata di Mike Tyson (Ges, 1998, instant book per le edicole), i thriller Il Boia (Hobby & Work, 2005),  e La ferocia del coniglio (Hobby & Work, 2007), poi entrati nella collana Giallo Mondadori.
Aliberti gli ha editato altri tre libri: il reportage Tribù di Notte, viaggio nelle ultime perversioni di tendenza (2005), Cara cronica- lettere (mai) pubblicate a Cronaca Vera (2007) e Il grande abbaglio- controinchiesta sulla strage di Erba (2008), scritto insieme a Felice Manti.
Tra le curiosità, alcune sue inchieste sui combattimenti clandestini, sulle cavie umane e sugli ultimi gladiatori sono state parodiate nel noir “Ho fatto giardino” (Mondadori, 2006) di Andrea G. Pinketts,  nel personaggio del giornalista investigativo Edoardo Montoya.
(fonte:
www.ilcasogenchi.it)

 

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