Mario Mori intervistato a 'Ballarò' - 2 dicembre 2014 Stampa
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Scritto da Redazione 19luglio1992.com   
Martedì 01 Agosto 2017 19:25

TRASCRIZIONE DELL’INTERVISTA A MARIO MORI – TRASMISSIONE TELEVISIVA BALLARO', RAI – 2 DICEMBRE 2014

 

IL SID E LA P2


Domanda (D): Generale Mori, la sua storia nell'arma inizia a fine anni ‘60, poi lei entra subito nel Sid, servizi segreti militari e l'inizio della sua carriera già è avvolta un po' nel mistero. Entra nel ‘72 e nel ‘75 viene improvvisamente allontanato. Addirittura allontanato da Roma. Chi l'allontana e perché viene fatto fuori?

 

MARIO MORI: Chi mi allontana è il generale Maletti, che penso in questi ultimi tempi è ritornato di moda come personaggio. Io entro nel servizio al Sid chiamato da quello che era stato il mio superiore a Verona, il colonnello Marzollo, e dal primo momento in cui sono stato presentato a Maletti a me è scattata immediatamente l'antipatia, reciproca indubbiamente. Lo sviluppo di quegli anni, che è stato terribile, se si ricorda era il periodo delle stragi, il Sid venne coinvolto pesantemente in quella realtà... nel ‘74, alla fine dell'estate, il generale Miceli, che dirigeva il servizio, venne arrestato. Si era creato una spaccatura all'interno del servizio, tra due gruppi, uno che faceva riferimento al generale Miceli, che mi sembrava quello giusto, e l'altro che faceva capo al generale Maletti, se vuole le posso dire politicamente come erano inquadrati...

 

D: Moro e Andreotti?

 

MARIO MORI: Sì, esatto. Noi perdemmo quindi fummo mandati via. Ho saputo solo recentemente che Maletti aveva motivato la mia cacciata dal servizio con la motivazione che, praticamente, ero di destra, di estrema destra e che quindi ero in qualche modo coinvolto nel golpe Borghese.

 

D: Ma lei è di estrema destra?

 

MARIO MORI: No, non sono di estrema destra, lo può dire chiunque, tra l'altro le mie indagini lo dimostrano, ho arrestato gente politicamente di destra e di sinistra.

 

D: Ma lei era stato portato lì da Marzollo che era comunque uomo di Miceli. Miceli è stato riconosciuto come piduista, poi è stato arrestato e prosciolto nell'ambito dell'inchiesta sulla rosa dei venti, un'organizzazione eversiva e paramilitare legato all'estrema destra, io le chiedo: lei sapeva che il suo capo era coinvolto in certi ambienti?

 

MARIO MORI: Guardi, all'epoca non si sapevano molte cose.

 

D: Lei ha mai avuto la tessera della P2?

 

MARIO MORI: No, non sapevo neanche cosa era la P2.

 

D: Era un po' ingenuo a non saperlo.

 

MARIO MORI: No, non lo sapeva nessuno a quell'epoca, all'inizio degli anni ‘70, era una cosa molto riservata... chiaramente si sapeva che c'era l'organizzazione massonica ma non la P2.

 

D: Ma lei che rapporti aveva con Licio Gelli?

 

MARIO MORI: Mai visto e conosciuto.

 

D: Ma perché il maggiore Mario Venturi sostiene, ha dichiarato che lei voleva fargli prendere la tessera della P2 e che addirittura gli aveva detto che Gelli gli aveva rivelato che gli appartenenti al Sid avevano una lista a sé stante. Si è inventato tutto Venturi?

 

MARIO MORI: Guardi, non lo so. È stato una grande sorpresa perché Mario Venturi è stato il mio superiore nei tre anni in cui ero al Sid e poi successivamente siamo rimasti amici. Ma sta di fatto che non c'è una documentazione in tutta la nostra vita che attesti una presa di posizione come poi viene fuori dai verbali redatti.

 

D: Pochi giorni fa il pm Di Matteo è volato in Sudafrica ed ha intervistato un novantenne, lì latitante, Maletti. Ma come è possibile che dopo 40 anni ci siano ancora delle cose non chiare sull'inizio della sua carriera, tali da andare ad intervistare Maletti in Sudafrica?

 

MARIO MORI: Io non sono mai stato coinvolto in nessuno processo che ha riguardato la destra eversiva o qualsiasi forma di eversione. Il generale Maletti si trova a Johannesburg perché è dovuto fuggire in quanto altrimenti veniva arrestato.

 

D: Ma secondo lei Maletti ha avuto un qualche ruolo nella strategia della tensione in Italia?

 

MARIO MORI: Maletti aveva le sue idee e, a mio avviso, sbagliando, ma sbagliando gravemente, quindi progressivamente era censurabile, cercava di applicare queste sue idee nel reparto che presiedeva.

 

D: Era un estimatore del regime dei colonnelli greco...

 

MARIO MORI: Esatto. Ma che lui volesse sovvertire le istituzioni... non lo so, non credo.

 

D: E neanche in caso di minaccia reale comunista?

 

MARIO MORI: Eh, sì, lì... lì bisogna vedere, certamente non era di idee di sinistra Maletti.

 

D: Ma perché lei comunque c'entra sempre quando si tratta di P2, di massoneria, di servizi deviati...

 

MARIO MORI: Ma io c'entro sempre perché ho un rapporto non facile con la procura di Palermo, solo per questo, a mio avviso.. Può anche essere giusto che qualche magistrato ritenga che io sia un genio del male. Però pretenderei, come penso tutti i cittadini del male, di avere la dimostrazione di essere il genio del male. Fino adesso non c'è riuscito nessuno.

 

 

 

IL COVO DI RIINA

 

D: Generale Mori, Lei e la sua squadra avete arrestato Totò Riina. In un giorno di gennaio il boss dei boss viene preso e portato in galera.

 

MARIO MORI: La cattura nasce nell'agosto del... nel ‘92. Perché si arriva lì a via Bernini? Per un'intuizione di De Caprio, il quale De Caprio si mette a seguire la famiglia Ganci. Quel giorno seguono Domenico Ganci, uno dei figli. Prendono il motorino, comincia a girare e entra in via Bernini. Gli vanno dietro. Ad un certo punto entra in un cancello, era un comprensorio cintato da alte mura... allora chi è che ci abita lì? Ci potrebbe abitare qualche personaggio importante. E, mi sembra, il 13 di gennaio mette il furgone all'ingresso di via Bernini…

 

D: La cosiddetta balena, quella con le telecamere...

 

MARIO MORI: Sì. E fanno vedere a di maggio le riprese del...

 

D: L'ex autista di Riina.

 

MARIO MORI: L'ex autista di Riina. Di Maggio vede una macchina che esce da via Bernini e dice “ma questa è Ninetta Bagarella”, cioè la moglie, e l'indomani riportiamo Di Maggio dentro la balena, vede una macchina arrivare e Di Maggio dice: “ma quello è coso... Biondo Lillo”, che poi era Salvatore Biondino. “Quello è uno dei più vicini a Riina.” Entra dentro, dopo mezz'ora esce e Di Maggio dice: “Oh, ma quello è Riina, quello affianco.” Allora abbiamo detto. Facciamo vedere che la cattura di Riina è un fatto episodico, una soffiata. Quindi non lo prendiamo lì.

 

D: Cioè lei non lo prese in via Bernini ma un po' più in là...

 

MARIO MORI: ...Perché volevo sfruttare via Bernini.

 

D: Quindi prendete Totò Riina, catturate il boss dei boss e non perquisite il suo covo. Come è possibile, generale?

 

MARIO MORI: Dunque, quando arrivammo... quando vennero i magistrati... tenga conto che quel giorno era il primo giorno di gestione della procura di Palermo da parte di Giancarlo Caselli. Era già pronta la squadra che doveva perquisire e fu Ultimo che chiese di soprassedere, dicendo che tanto non c'era nulla nella casa e ne convenivo anch'io.

 

D: Tanto non c'era nulla?

 

MARIO MORI: Perché il mafioso non rischia mai di tenere, nella casa dove vivono i suoi figli e la moglie, di tenere documenti che li compromettono.

 

D: E però nel dubbio non ci andate a mettere le mani, a vedere cosa c'era?

 

MARIO MORI: No, perché il discorso che fece De Caprio, che io inizialmente non condivisi ma che poi dopo, visto che loro accettarono, lo accettai anche io, era quello che si doveva continuare nell'ipotesi che non c'era connessione tra il luogo della cattura e il luogo dove teoricamente risiedeva.

 

D: Scusi, quindi, se ho capito bene, lei e i suoi uomini non avete perquisito quell'abitazione perché vi faceva comodo ai fini delle vostre indagini che quell'abitazione fosse ancora non toccata per poterla osservare.

 

MARIO MORI: Io la definii, con quella frase che uso spesso, “la gallina dalla uova d'oro.”

 

D: Però quando ci siete entrati, 19 giorni dopo, le uova erano sparite tutte.

 

MARIO MORI: Sì, ma non siamo entrati mica noi, sono entrati gli altri, noi non volevamo entrare. Ma guardi che cinque minuti dopo la cattura di Toto Riina, se c'era qualche documento nella casa veniva strappato e distrutto.

 

D: Perché non avete detto alla procura “guardate che noi non stiamo nemmeno vigilando questa casa”?

 

MARIO MORI: Noi abbiamo detto sin dall'inizio, a due - tre ore dalla cattura, che era incontrollabile la casa.

 

D: Ma come l'avevate controllata al punto di arrivare a catturare Riina ed improvvisamente era incontrollabile?

 

MARIO MORI: No, noi avevamo controllato il comprensorio, non la casa.

 

D: Ma dal comprensorio entra ed esce qualcuno, pure che non si sa qual è l'appartamento.

 

MARIO MORI: Lasciamo che le acque si tranquillizzino, che tutto ritorni normale e poi riprendiamo. Questo era il concetto.

 

D: E tornando indietro, anche su questo, lei rifarebbe tutto?

 

MARIO MORI: Certamente sì.

 

D: Ma c'è qualcosa di questa vicenda che lei non ha mai detto prima d'oggi?

 

MARIO MORI: Sì, tengo a precisare una cosa che purtroppo viene sempre misconosciuta oppure non compresa. Riina non abitava permanentemente a via Bernini. Sicuramente aveva passato lì la notte ma nessuno aveva mai detto che quella era l'abitazione che lui frequentava quotidianamente. La base probabilmente è un'altra.

 

D: E questa cosa non l'ha mai detta prima.

 

MARIO MORI: No, perché a noi sembrava scontata.

 

D: Quando poi le forze dell'ordine sono entrate lì dentro, non c'era nemmeno la moquette, la cassaforte era stata portata via...

 

MARIO MORI: Altra balla. La cassaforte è sempre stata lì ed è tuttora lì. Lo ha dimostrato il mio avvocato quando ci fu il processo, che l'andò a fotografare all'interno della villa di Riina.

 

D: Si dice che dentro la cassaforte ci fosse il papello famoso.

 

MARIO MORI: Ma questo chi lo dice, Massimo Ciancimino? Per me il papello non esiste.

 

D: Quindi i punti famosi noti del papello quelli che testimonierebbero la trattativa, l'abolizione del 41bis, la modifica della legge La Torre sulla confisca dei beni, la riforma della legge sui pentiti, la scarcerazione dei boss trattenuti al 41bis, tutte queste cose non sono mai state né scritte né oggetto di trattativa?

 

MARIO MORI: No.

 

 

 

LA LATITANZA DI PROVENZANO

 

D: Lei nel '95, e su questo c'è un altro processo, che la vede assolto, anche se la procura ha fatto appello, per il mancata arresto di Provenzano. E lì c'è un testimone, il colonnello Michele Riccio che dice che gli fu impedito di andarlo a catturare nel casolare di Mezzojuso in provincia di Palermo. Dice che la vostra fu una forma di osservazione a distanza e qui, diciamo, qualche commentatore ironico ha detto “talmente a distanza che hanno evitato di prenderlo”.

 

MARIO MORI: Il colonnello Riccio fu cacciato dalla DIA, questa è storia, lo dice il processo, e ritornò nell'Arma. E, siccome diceva che poteva far catturare Provenzano, l'Arma lo rimandò al Ros. Il sistema Riccio non mi convinceva però, caspita, se catturava Provenzano, era un bel colpo. Fu lui a dire che si doveva fare un'osservazione. Lo conferma il sostituto, allora, procuratore della repubblica di Palermo, Pignatone, che il primo novembre, cioè il giorno dopo i fatti di Mezzojuso dove noi avremmo evitato di... riceve Riccio che gli deve spiegare quello che è successo il giorno prima. Per cui agli atti del processo c'è il fatto che il primo ottobre viene... c'è un documento firmato da Giuseppe Pignatone, nel quale si dice, è venuto Riccio, mi ha parlato che c'era stato un colloquio, della fonte Ilardo con Carlo Greco, che era uno degli esponenti di spicco della famiglia di Bagheria. Non parla di Bernardo Provenzano. Ora, se vogliamo mettere in dubbio la testimonianza di Pignatone, facciamolo pure, però, rischiamo una denuncia perché questo ha gli atti che testimoniano a suo favore.

 

 
 

LA TRATTATIVA

 

D: Primi anni ‘90, lei era a Palermo, maxi inchiesta sulla mafia e sugli appalti che portò poi alla strategia stragista della mafia. Muore Falcone, muore Borsellino a luglio e lì succede un fatto ancora oggi cruciale. Lei, il generale del Ros Mario Mori, l’integerrimo nemico della mafia decide di incontrare segretamente niente meno che il mafioso Vito Ciancimino. Perché lo fa?

 

MARIO MORI: Perché è molto semplice, tra il maggio e l’agosto del ‘92 l’Italia era veramente in ginocchio, c’era a Palermo la paura, non c’era più nessuno, non c’è arrivata nessuna direttiva dalle istituzioni, né dalla Procura né dai miei comandi superiori. Se si voleva fare qualcosa a quel livello lì bisognava salire di livello. Il personaggio più debole, tra virgolette, era Vito Calogero Ciancimino.

 

D: Era ricattabile?

 

MARIO MORI: Si, ricattabile tra virgolette, da uno dello Stato contro un appartenente, seppur non uomo d’onore, appartenente alla mafia, era la sua debolezza dal punto di vista giudiziario. Si stavano addensando sul capo di Vito Calogero Ciancimino una serie di procedimenti che lo avrebbero portato sicuramente in galera. Questo era sicuro. Quindi era debole. Ci poteva dare qualche spunto per potere andare avanti e barattare, secondo lui, questo con un trattamento migliore.

 

D: Barattare?

 

MARIO MORI: Barattare, certo.

 

D: E non è trattare, barattare?

 

MARIO MORI: No, barattare non significa trattare. Significa... Dipende poi dall’ufficiale di polizia giudiziaria valutare se è il caso di intervenire o meno e accedere o meno.

 

D: L’ufficiale di polizia giudiziaria sarebbe stato lei?

 

MARIO MORI: Certo che ero io.

 

D: Che differenza c’è tra baratto e trattativa?

 

MARIO MORI: Bisogna vedere qual è lo strumento del baratto.

 

D: Si spieghi meglio.

 

MARIO MORI: Le spiego: lei è diciamo il mafioso, io le faccio una domanda e lei dice “te lo posso dire però se… mi dai questo”. Io lo valuto e dico no, non te lo posso dare; si, te lo posso dare. Questo è il rapporto che c’è... una volta per tutte deve essere chiaro, perché ci sono... c'è molta gente, suoi colleghi e qualche magistrato che ci rigira sopra. Questo è il modo previsto dal 202 codice di procedura penale che consente all’ufficiale di polizia giudiziaria di trattare con le fonti. Va bene? E io a questo mi sono attenuto. Art. 202 cpp. Quando Ciancimino, e io non credevo sarebbe mai arrivato a tanto, disse “ma io ho parlato con quelli, cosa mi offrite, cosa offrite?”

Io dissi, “semplicissimo, si consegnino i vari Riina e Provenzano e noi tratteremo bene le loro famiglie”. Ricordo che quando io gli feci questa affermazione,  lui che era seduto su una poltrona   c‘aveva allora 72, 73 anni, schizzò dalla sedia come una palla e mi guardo con gli occhi sbarrati e disse “lei è matto, lei vuole morire anzi vuole fare morire me e poi vuole morire lei”.

 

D: Lei disse :”io voglio la testa di Riina...”

 

MARIO MORI: Si, no, gli dissi “Riina e Provenzano”.

 

D: E come si poteva pensare che un mafioso non pentito come Ciancimino, Voi, Stato, andavate da lui sul tavolo a dirgli “io voglio la testa di Riina” e quello in cambio non vi chiedesse niente?

 

MARIO MORI: Non era questo il ragionamento. Era chiaro, siamo già all’epoca dei pentiti, che questo avrebbe poi corrisposto, da parte dello Stato, a un atto di riconoscimento come tutti i pentiti. Il presupposto era che Vito Ciancimino le cose doveva poi dirle al magistrato.

 

D: E allora le chiedo perché non ha avvertito subito la procura che andava ad incontrare i mafiosi?

 

MARIO MORI: Perché la procura era diretta dal procuratore Giammanco con cui io non avevo rapporti perché non lo ritenevo... e mi sembra che gli atti dei processi poi l’hanno dimostrato... corretto con le Istituzioni.

 

D: Ma ecco lei quel giorno di agosto prese la sua macchina, andò a piazza Navona dove abitava  Vito Ciancimino, andando lì non pensò che stava facendo qualcosa quantomeno border line?

 

MARIO MORI: No. Io ero un ufficiale di polizia giudiziaria e facevo indagini di antimafia e quello era un mio compito. Io c'avevo il coraggio di andarci. Nessuno c'aveva il coraggio di andare, erano tutti nascosti sotto le scrivanie in quel periodo.

 

D: Sembra una disputa filosofica, però la trattativa allora che cos’ è se non il già sedersi ad un tavolo con il nemico per vedere che carte ha in mano? Trattare è sempre sbagliato? Penso al caso di Aldo Moro, ad esempio.

 

MARIO MORI: La trattativa c’è sempre stata a vari livelli,ma tra virgolette trattativa, a vari livelli: quella dell’ufficiale di PG è un tipo di trattativa e poi c’è quella politica.

 

D: Quindi è un tipo di trattativa quella che lei ha fatto con Ciancimino?

 

MARIO MORI: Si, però è una trattativa consentita dalla norma…


 

SISDE E PROTOCOLLO FARFALLA

 

D: Lei nel 2001, dopo le torri gemelle, da Berlusconi fu nominato capo dei servizi segreti. Recentissimamente sono usciti fuori questi sei fogli di carta, senza intestazione, senza firma, solo con la scritta “riservato”. E questi sei fogli sarebbero il c.d. protocollo Farfalla. Cosa sarebbe il protocollo farfalla? sarebbe un accordo tra lei, quindi i servizi segreti, e il dipartimento delle carceri per, a pagamento, estorcere informazioni ai super boss. Esiste? E, se esiste, lei c’entra qualcosa?

 

MARIO MORI: Il cosiddetto protocollo Farfalla è oggetto, ed è stata depositata la documentazione relativa, del processo  la trattativa e anche nell’appello del  processo Provenzano. Tenga conto che io conoscevo l’allora direttore del D.A.P., Giovanni Tinebra, ci incontrammo e ci accordammo sul fatto che avremmo gradito per gli elementi mafiosi non oggetto di attività specifica della magistratura in quel momento… su quelli, chiedemmo, ai responsabili del D.A.P., di avere un quadro di situazioni per vedere se c’era qualche crepa nel loro atteggiamento che consentisse qualche attivazione. Come? Noi non siamo mai entrarti nel carcere, non abbiamo mai dato soldi a chicchessia, abbiamo fatto solo un elenco di 8 persone che, se ci fossero state le possibilità, le potenzialità, potevano interessarci. Come? Attraverso le notizie che ci venivano date, potevamo contattare i familiari all’esterno e poi tentare una mediazione tra l’esterno e l’interno, mediata da chi? dal personale delle carceri.

 

D: Anche lì all’insaputa dei magistrati?

 

MARIO MORI: Perché? Perché dovevano saperlo?

 

D: Perché no?

 

MARIO MORI: Era una fonte, un tentativo. Come tutti i tentativi, c’era la legge che mi consentiva di fare questo e io non lo facevo con uno qualsiasi ma con Giovanni Tinebra, adesso procuratore generale a Catania, quindi con persone serie, che rappresentavano le Istituzioni dello Stato; perché le Istituzioni dello Stato non sono solo la magistratura, le Istituzioni dello Stato sono tante e tutte rispettabili, fino a prova contraria. Allora il DAP, lo prevedeva la legge 801, aveva la possibilità di avere rapporti, come tutte le Istituzioni, con i servizi, ai fini istituzionali di entrambi.

 

D: Quindi Il protocollo farfalla esiste ma…

 

MARIO MORI: No, non esiste, esiste un’operazione farfalla che è una singola vicenda che per quanto ci riguarda fu un tentativo con (… incomprensibile) di questi otto qua, che poi ci fece desistere perché ci rendemmo conto che la mediazione tra l’esterno dove eravamo noi che potevamo contattare qualcheduno e l’interno che era il D.A.P - che doveva contattare… era macchinosa, era infelice nella sostanza perché giustamente l’operatore del D.A.P. che ne sapeva di criminalità organizzata?

 

D: E comunque tutto questo non ha mai previsto il pagamento…

 

MARIO MORI : Mai. Mai, neanche l’ingresso in carcere.

 

D: Chi è Mario Mori?

 

MARIO MORI: Mario Mori è un ufficiale dei carabinieri che ha fatto la sua carriera con convinzione, che è arrivato al termine della sua carriera e facendo un’analisi tra il ricevuto e il dato è in vantaggio: ha più ricevuto che dato.




Trascrizione dell'intervista a cura della redazione di www.19luglio1992.com




 

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