Ingroia: 'Nell'inchiesta sulla trattativa accertato il massimo ad oggi possibile' Stampa
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Scritto da Nicoletta Martelletto   
Lunedì 03 Settembre 2012 19:49

Il coordinatore del pool antimafia di Palermo ha presentato a Mossano il libro che racconta gli anni accanto a Falcone e Borsellino e una città “malata”

26 agosto 2012.
Nato nel 1959. Scortato dal 1990. Blindato dal 1992, dopo la strage di Capaci e l'uccisione di Borsellino. Da allora la sua professione e insieme la sua vita privata hanno respirato l'odore acre della mafia. La prima busta con i proiettili arriva nel 1991: «Troppo presto, mi spiace, dovevano essere diretti a me» gli disse Paolo Borsellino di cui era diventato braccio destro. Antonio Ingroia ha scritto un libro giuridico-intimista in cui dipinge la sua città, i suoi maestri, le leggi di Stato e le regole di Cosa Nostra. Per la presentazione di “Palermo. Gli splendori, le miserie, l'eroismo e la viltà”, edito da Melampo, in piazza a Mossano c'era un migliaio di persone, su invito di Comune, Spi Cgil e Legambiente. Procuratore aggiunto alla procura antimafia di Palermo, Ingroia in ottobre lascerà l'Italia per un incarico Onu in Guatemala, dopo aver chiuso le faticose indagini sulla trattativa Stato-mafia. Andrà via anche il procuratore aggiunto De Francisci, destinato all'Avvocatura dello Stato. E per il vertice della Procura generale di Palermo sono in lizza Francesco Messineo (ora procuratore capo) e Roberto Scarpinato (procuratore generale di Caltanisseta). Un sudoku con molte incognite e un pool smontato che dovrà ripartire. Questo l'affresco alle spalle di Ingroia, che l'altra sera sedeva alla baita alpina davanti a bigoli e sarde in saor, tormentato dal telefono e dall'afa.
 

Lo saluta Bepi De Marzi con un'ode «all'uomo dal trattenuto sorriso e dal grande coraggio». Lo introduce l'avvocato Francesco Di Bartolo che lo provoca sui magistrati protagonisti.
Non facciamo un buon servizio rappresentando i magistrati come superuomini - replica Ingroia - Per me il tema della legge è sempre stato centrale, anche quando frequentavo da studente il centro Peppino Impastato. Ed è stato quasi naturale esplorare il problema della distanza tra legalità e giustizia, di ciò che sente la maggior parte del Paese rispetto alla gestione della giustizia».

Allora spieghi meglio cosa è successo in Sicilia negli ultimi trent'anni.

Una delle cose che è accaduta è che la cultura democratica dentro la magistratura è cresciuta, anche per un rinnovamento generazionale. Una magistratura libera, equidistante. Il sistema di potere ha reagito con una campagna politico-mediatica ma la magistratura quando ha potuto ha continuato ad applicare la legge in modo eguale, fino all'intervento di leggi ad personam o di immunità, di amnistie, di prescrizioni che tornano ad alimentare il sistema delle diseguaglianze e allungano i tempi dei processi. La classe dirigente ha un'allergia al principio di responsabilità delle proprie azioni: e come dimostra la responsabilità penale che a tratti funziona, c'è ancora un pezzo di Stato e classe dirigente che pensa di poter agire in un sistema fondato su privilegi e diseguaglianze. Tutto questo determina sfiducia nella popolazione: si cerca di orientare il malcontento su luoghi comuni che riguardano i magistrati, invece che su chi crea questo sistema.

Palermo ne è il paradigma: per questo le ha dedicato il suo quarto libro?

Palermo è il luogo dove sono nato e vivo, ma anche dove ho maturato la consapevolezza che rappresenta una situazione limite nel panorama del Paese, perchè qui si sono giocati e si giocano passaggi cruciali della storia dell'Italia. Ho voluto fare la mia parte con l'orgoglio del palermitano ma anche con un senso di colpa per una città che ha prodotto il meglio e peggio.

Adesso lascerà Palermo. La decisione del Csm suona come un esilio, lei mi dirà che invece le hanno offerto una opportunità.

Il Guatemala, dove mi occuperò di abusi durante la guerra civile ma non solo, è frutto di contatti col Centro e Sudamerica che risalgono a parecchi anni fa, un mondo col quale ho dimestichezza perchè anche là ci si batte sul tema della criminalità organzizata. Per i colleghi l'esperienza italiana e quella siciliana sono un modello di riferimento, perchè noi la mafia non l'abbiamo sconfitta ma certamente l'abbiamo ridimensionata. È vero che mi è stato offerto un incarico e avrei potuto indicare altri, ma molti fattori mi hanno ritenere chiusa una certa esperienza. E non nascondo l'amarezza per le tante, continue e incessanti polemiche attorno alla mia persona. Tutto questo mi ha indotto a vedere favorevolmente una proposta che forse in altri tempi avrei rifiutato. Rassicuro Cicchitto e Gasparri che sono i miei più attenti lettori (ride, ndr) che non li deluderò e parteciperò al dibattito politico anche da là... Partirò ad ottobre, per un anno. Poi si vedrà.

1992-2012: il pool antimafia è di nuovo da ricostruire. Che succederà?
Io credo che vent'anni non sono trascorsi inutilmente, abbiamo fatto molti passi avanti, raccogliendo gli insegnamenti di Falcone, di Borsellino, i miei maestri insieme a Caponnetto e Chinnici. Le indagini chiuse in queste settimane ne sono il simbolo: aver potuto indagare sulla trattativa Stato-mafia è l'esempio che pur tra mille difficoltà siamo andati avanti e che si farà un processo. Non credo che tutta la verità sia stata accertata ma forse è il massimo che nelle condizioni date in Italia ora si potesse fare. È un percorso in salita, in tanti continueranno a lavorare.

Trattare non è reato ma negli anni successivi alle stragi voi avete rilevato l'ipotesi di violenza e minaccia verso istituzioni e politici, giusto?
Gli anni oggetto della nostra indagine sono dal 1992 al 1994. Abbiamo raccolto prove che lo Stato è stato indotto a trattare con la mafia o a concedere benefici sulla base di azioni intimidatorie. Intermediazioni tra chi minaccia e chi è stato minacciato, agevolazioni alla mafia nel rappresentare la sua minaccia. Tutto questo porta al concorso nel reato di estorsione e minaccia. Chi era nel corpo politico o nel governo e conosceva l'esistenza della trattativa dovrà dire la verità all'autorità giudiziaria. Se non lo fa, c'è falsa testimonianza.

La polemica col capo dello Stato ve l'aspettavate?
E' frutto di un vuoto legislativo ma anche della questione intercettazioni tutt'ora irrisolta.

Lei ha già precisato che non tutto delle intercettazioni è rilevante: è la sua apertura?

Io dico che l'unico effettivo intervento legislativo organico che andrebbe fatto è un intervento che aiuti a blindare ancora di più il segreto attorno alle intercettazioni. Quando sono uscite è stato perchè il sistema non funziona bene, e questo non riguarda certo la vicenda del Quirinale perchè il sistema di protezione messo in atto dalla procura di Palermo ha funzionato benissimo. In generale una riforma delle intercettazioni risulterà utile ma non a partire dal disegno di legge Alfano che non era nato dal dialogo con la magistratura ma contro la magistratura.

Servono anche nuove leggi sui pentiti?
Sono uno strumento delicato che impone cautela e prudenza. Scrivo che i mafiosi diventano autentici solo da pentiti: perchè dopo le stragi del '92 con gli incentivi alla dissociazione dalle organizzazioni mafiose, ci furono decine gli uomini che abbadonarono le file della mafia per collaborare. Vennero sequestrati patrimoni illeciti, svelate complicità anche con le istituzioni. Alla soglia di una vera svolta, si sollevò intenzionalmente un polverone per denigrare i magistrati e innalzare quella legge-bavaglio che ha ridimensionato i benefici in termini di sconto e innescato l'autocensura da parte dei pentiti. La mafia l'ha percepita come una indicazione ed è la ragione per cui oggi è stata riaccesa la luce sulla trattativa Stato-mafia. Se la politica vuole cercare la verità ha i mezzi a disposizione: può rivedere la legge sui pentiti che torneranno a raccontare la verità.
 


Nicoletta Martelletto (Il Giornale di Vicenza)








 

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