Vent’anni dopo la strage. Incontro con Salvatore Borsellino Stampa
Rubriche - Libri
Scritto da Gabriella Bologna   
Sabato 30 Giugno 2012 16:57
E’ stato presentato, mercoledì 27 giugno, alla FNAC di Verona Fino all’ultimo giorno della mia vita, un libro di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso dalla mafia nel 1992, e Benny Calasanzio Borsellino, giornalista e parente di altre due vittime della mafia, gli imprenditori Giuseppe e Paolo Borsellino.

Il volume non è una celebrazione di Paolo Borsellino ma un racconto che inizia dai bombardamenti degli alleati a Palermo durante la guerra. Pochi anni dopo, nel popolare quartiere della Kalsa, due bambini, Paolo e Salvatore, crescono nel palazzo dei marchesi Salvo, in una casa affrescata e piena zeppa di libri e cimeli africani portati dallo zio Ciccio, un personaggio strano e affascinante protagonista di alcuni momenti esilaranti dell’infanzia dei due fratelli. Alla fine degli anni ’60 le loro strade si dividono: Paolo inizia la carriera di magistrato e Salvatore si trasferisce a Milano per lavorare come ingegnere informatico.

Il 19 luglio 1992 avviene la strage di via D’Amelio, portando con sè un dolore terribile da vivere, straziante da raccontare, difficilissimo da descrivere in un libro. Una madre che sente lo squillo del citofono e subito dopo l’esplosione che le porta via il figlio. Una figlia che asciuga con un fazzoletto il fumo nero sul viso del padre a cui sono saltate braccia e gambe. Un fratello che veglia per giorni, e non potrà mai dimenticare l’odore esalato dalla bara chiusa e dai fiori che appassiscono.

La narrazione assume toni crudissimi nella descrizione dei corpi lacerati “i resti di Paolo furono raccolti in un sacchetto dell’immondizia” spiega Borsellino, “e furono sufficienti 5 scatole di scarpe per contenere quelli degli agenti della scorta ridotti a brandelli: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina“. Il pubblico dela saletta gremita si commuove alla voce spezzata dell’autore e si indigna al racconto di aneddoti sconcertanti (lo stato ha mandato la fattura per il trasporto della bara di Emanuela Loi ai genitori in Sardegna).

Poi c’è la riscossa. La madre fa promettere a Salvatore e Rita di impegnarsi perché il sogno di Paolo non cada nell’oblio. Ai funerali la gente sfonda i cordoni della polizia e aggredisce i politici. La città insorge e si riempie di persone indignate che sfilano per mesi nelle strade e appendono ai balconi lenzuola bianche in segno di protesta contro la mafia. Segue il silenzio. Salvatore ha perso la speranza e non riesce più parlare. Per dieci anni. E infine avviene il ritorno rabbioso alla vita, le battaglie e le domande scomode rivolte ai potenti.

Il libro si chiude in una casa di Mondello davanti a una finestra affacciata sul mare. “Non riuscirò a mettere la parola fine a questa vicenda negli anni che mi restano” afferma l’autore. “Lo stato non aveva nessuna intenzione e nessun interesse a proteggere Paolo. L’esplosivo che lo ha ucciso è il Semtex, quello utilizzato da militari e servizi segreti“. C’è dolore, ma c’è anche speranza. Nell’ultima lettera scritta prima di morire il magistrato parlava del suo ottimismo verso i giovani “che non hanno la colpevole indifferenza che io mantenni fino a quarant’anni”, e anche Salvatore crede fermamente nelle nuove generazioni.

Salvatore Borsellino è un uomo onesto e coraggioso, tenace nel portare avanti una lotta instancabile e appassionata per la verità che dopo vent’anni non è ancora stata raggiunta, che ha rinunciato al risarcimento offerto dallo stato per la morte del fratello e ai profitti sui diritti d’autore per questo libro perché “non si può lucrare sulla memoria“. E noi non abbiamo dubbi che le sue parole siano sincere.

“Palermo non mi piaceva. per questo imparai ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non piace per poterlo cambiare”. Paolo Borsellino

da: Controcampus.it

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