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Non solo 'ndrine. Le verità nascoste nel caso Caccia PDF Stampa E-mail
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Scritto da Davide Milosa   
Giovedì 24 Dicembre 2015 22:59
di Davide Milosa - 24 dicembre 2015

Per la Procura di Milano il punto è fermo: Rocco Schirripa il 26 giugno 1983 uccise il procuratore capo di Torino Bruno Caccia. Inchiesta lampo. Decisive le intercettazioni ambientali. Pochi dialoghi e una sola interpretazione. Schirripa sparò. Da martedì il panettiere con dote mafiosa è in una cella di San Vittore. Ieri davanti a giudice e pm ha detto di voler spiegare che quelle 108 pagine di ordinanza sono un abbaglio. È stato fermato da Basilio Foti, il suo legale. Ordine tassativo: “Prima bisogna leggere le carte”. Bocce ferme e tutto rinviato al gennaio 2016. Sul tavolo del caso Caccia, 32 anni dopo gli spari, resta, per ora, l’ordinanza d’arresto.

DA QUI bisogna ripartire per fissare certezze e buchi neri. Si sa, perché dichiarato dai magistrati, che tutto nasce da un anonimo costruito dalla polizia. Si getta l’esca e quel nome: Rocco Schirripa mai emerso nel processo che ha certificato il ruolo di mandante per Mimmo Belfiore. I pesci abboccano. Il virus che trasforma gli smartphone in microspie funziona. È l’ultima frontiera delle indagini tecniche. È legittima? Il giudice Stefania Pepe non pare avere dubbi. L’avvocato Foti si riserva “di eccepire questioni formali”. Niente Tribunale del Riesame, forse quello della Libertà nel momento in cui “il metodo investigativo” mostrerà crepe strutturali.
L’azzardo dichiarato dall’accusa viene premiato. Il match (giudiziario) però è solo all’inizio. Il rischio di un’archiviazione resta un’ipotesi concreta. Il risultato, però, sarebbe drammatico: la chiusura del fascicolo azzererebbe anche i giochi che puntano ai veri mandanti. Storicamente, infatti, la condanna di Belfiore ha sollevato molti dubbi alimentati, perlopiù, dall’ingerenza (accertata) dei servizi segreti. Sentenza definitiva nel 1993. Vent’anni dopo, nel 2013, Fabio Repici, legale della famiglia Caccia, riprende in mano i 23 faldoni del processo milanese istruito da Francesco Di Maggio. E lo fa perché in un altro procedimento il magistrato Olindo Canali, uditore di Di Maggio nel caso Caccia, intercettato rivela due cose: il nome di Saro Cattafi, uomo in più dei clan di Cosa nostra vicino a Nitto Santapaola, e la circostanza che nel maggio ‘84 in casa sua fu ritrovato un falso volantino di rivendicazione dell’agguato firmato Brigate Rosse. Non è falso ma oggettivo, invece, che il faldone uno si occupi di Cattafi legandolo all’omicidio.

CAMBIA LA STORIA, spunta Cosa Nostra, i casinò, il riciclaggio e un pretore di Aosta, Giovanni Selis, scampato a un agguato dinamitardo. È il dicembre 1982, indagava sul casinò di St. Vincent. Lo stesso che Caccia fece perquisire nel maggio 1983, un mese prima di morire. Quel casinò sul quale, si legge negli atti di Di Maggio, aveva messo le mani Cosa Nostra. Il faldone numero uno contiene anche un “papello” redatto dai servizi sotto dettatura di Cattafi. Spiega chi lo scrisse: “Il giudice Caccia (…) fatto fuori da un gruppo capeggiato da Epaminonda (Catanese). Sullo sfondo la questione inerente St. Vincent”. Cattafi dice di poter dare nome e volto a uno degli esecutori. È Demetrio Latella, persona – spiega il mafioso Giuseppe Angemi – legata alla ‘ndrangheta e a Mimmo Belfiore. Repici scrive e aggiorna gli esposti che, però, fino al giugno scorso vengono iscritti solamente a modello 45 (atti che non costituiscono reato).

PER IL MODELLO 21 (iscrizione del reato e degli indagati) deve intervenire la procura generale che con una lettera riservata chiede conto all’ex procuratore Edmondo Bruti Liberati. Risultato: Cattafi e Latella vengono iscritti per omicidio nel nuovo fascicolo Caccia. Lo stesso che ha portato in carcere Schirripa. Eppure nell’anonimo i nomi di Cattafi e Latella non ci sono. Perché? Scrive il pm: “La prospettata ricostruzione alternativa si ritiene priva di consistenza probatoria”. Risponde Fabio Repici: “Dal 2013, i figli di Bruno Caccia, io come loro avvocato, non ci siamo fermati davanti alla scarsa convinzione della Procura di Milano. Ma il merito principale è della dottoressa Laura Bertolè Viale, senza il cui intervento nulla sarebbe accaduto”. Fu infatti la dottoressa Viale come presidente della procura generale a dare benzina all’inchiesta bacchettando la procura. “Ora – dice Repici –speriamo che si apra il processo e che si possano individuare le identità dei responsabili del delitto Caccia”.


Davide Milosa (Il Fatto Quotidiano)








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