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Mafia in Veneto: rischio o realtà? PDF Stampa E-mail
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Scritto da Enzo Guidotto   
Sabato 01 Agosto 2015 14:08
di Enzo Guidotto* - 29 luglio 2015

Il superamento dei tradizionali pregiudizi e luoghi comuni sulla mafia in Veneto non può essere facilitato da certe analisi parziali ed a senso unico del fenomeno che, puntando esclusivamente sulle infiltrazioni, si rivelano riduttive e fuorvianti: bisogna piuttosto prendere atto di altri importanti aspetti finora negati o sottovalutati per quell’eccessivo e diffuso senso di orgoglio regionalistico che induce a una lettura del problema in chiave vittimistica e finisce per far solo comodo al leghismo politico militante. Quali sono questi aspetti? Primo: nell’ambito della regione, l’influenza di boss e gregari non è stata dovuta allo loro vittoriosa uscita da conflitti ambientali, ma ad una specie di attrazione fatale con soggetti “nostrani” per il perseguimento di interessi reciproci. Secondo: negli ultimi tempi, imprenditori veneti, sia ‘in loco’ che in trasferta nel Sud, non hanno disdegnato intese ed affari con personaggi al di sotto di troppi sospetti, per cui, stando all’ultima relazione dalla DNA, le infiltrazioni vengono favorite anche da «contatti e collegamenti cooperativi» che si continuano a realizzare con locali realtà «imprenditoriali e commerciali». Terzo: per il dottor Roberto Terzo, magistrato della Procura di Venezia, le condizioni che possono determinare un ulteriore inquinamento del tessuto economico veneto vanno ricercate nel «declino etico e morale presente nella società». Quarto: sempre secondo la DNA, nella regione permane una «insufficiente presa di coscienza da parte delle strutture amministrative e sociali, a cui spetterebbe l’adozione di più consapevoli strumenti di contrasto preventivo».

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Mafia in Veneto: scenario immaginario o situazione concreta? In altri termini, nella nostra regione, la mafia è soltanto un rischio dei nostri giorni o una realtà che dura da tempo?Di conseguenza, quale dovrebbe essere lo scopo delle iniziative promosse da enti pubblici ed associazioni private sul fenomeno mafioso in Veneto? Quello di prospettare un evento futuro ed incerto dal verificarsi del quale possono derivare danni alla popolazione, all’economia, alla democrazia ed alle istituzioni o di affrontare un problema attuale, maturato in passato e suscettibile di ulteriori sviluppi?

Da un po’ di tempo sembra che sia diventato di moda un motto che assomiglia agli slogan dei  tanti spot che la televisione ci somministra giornalmente in modo martellante degenerando a volte nella pubblicità ingannevole:  il Veneto non è terra di mafia ma è terra che piace alla mafia. A prima vista la frase, ben congegnata e facilmente memorizzabile, produce un certo effetto ma, sottoposta ad un’attenta riflessione alla luce di ricorrenti fatti concreti , si rivela riduttiva e fuorviante perché non agevola, anzi impedisce, la necessaria presa di coscienza collettiva sul problema, indispensabile per stimolare una partecipazione democratica alla sua soluzione.

In non pochi casi, infatti – a partire dalle vicende della Banda Maniero per finire a quelle piu recenti dei clienti della società “Aspide” gestita nel Padovano da soggetti vicini a un clan della camorra – l’influenza di boss e gregari del più profondo Sud nel nostro territorio non è stata dovuta allo loro vittoriosa uscita da conflitti ambientali, ma ad una specie di attrazione fatale con soggetti “nostrani” per interessi reciproci.

Ancor più grave si rivela però l’assoluto silenzio sugli imprenditori veneti che, sia in madrepatria che nel Meridione, non hanno disdegnato la collaborazione di operatori economici collusi o seguìto esempi e metodi di “uomini del disonore”.

Eppure, già nel 2005, il dottor Piero Grasso, da procuratore a Palermo, aveva avvertito che Cosa Nostra aveva collegamenti in Veneto e che imprenditori siciliani facevano investimenti ed ottenevano appalti nelle regioni del Nord, Veneto compreso, così come imprenditori del Nord, Veneto compreso, facevano la stessa cosa nel Sud. E la stessa tendenza andava sviluppandosi anche in terra di Camorra e di Ndrangheta. Quattro anni dopo, sempre Grasso, ormai al vertice della Direzione Nazionale Antimafia, faceva notare che una sessantina delle inchieste portate avanti dal 2002 dimostravano che il traffico di rifiuti tossici andava «da Nord vanno al Sud e viceversa» e che le aziende del Nord, «principali produttrici di rifiuti industriali» trovavano «nell’illegalità il modo per risparmiare sullo smaltimento». Conclusione? «L’ecomafia non c’e solo in Campania ma anche in tutta Italia» aveva sottolineato il procuratore. Gli esempi non mancano, ma per avere un’idea basta citarne un paio.

Qualche anno fa, ben 20 imprenditori veneti, responsabili dell’interramento nelle campagne della Campania di scorie fortemente inquinanti  ed accusati all’inizio anche di associazione camorristica, sono usciti pressoché indenni da un importante procedimento giudiziario, ma per il solo fatto che erano stati superati i termini previsti per la prescrizione dei reati. Morale della favola: nell’ambiente i danni ci sono stati, ma sul piano penale i responsabili l’hanno fatta franca.

Attualmente, invece, a Venezia, a carico di un buon numero di industriali veneti di spicco che di fatto si sono comportati allo stesso modo – seguendo cioè, in sostanza, un metodo che è quello collaudato dai casalesi –  è stato disposto il rinvio a giudizio per aver imboscato materiale tossico sotto il manto stradale della ‘Valdastico sud’, dove – secondo gli esposti presentati da “Medicina democratica” ed associazioni e comitati di impegno civico che sono rivelati determinanti per l’apertura dell’inchiesta da parte della Direzione Distrettuale Antimafia – «camion delle imprese che lavorano al cantiere avrebbero riversato scarti di fonderia contenenti metalli pesanti e sostanze chimiche  in notevole concentrazione». Per avere un’dea dell’ampiezza del giro, basta considerare che una volta era stato notato un convoglio di ben 80 camion che, provenienti da Crotone, col buio della sera, si erano diretti verso precisi punti dell’autostrada.

Da accertamenti è anche risultato che una delle più grosse imprese che hanno eseguito i lavori, la “Serenissima Costruzioni”, ne aveva affidato una porzione in subappalto alla ditta “CtC” di Luigi Conforto di Catanzaro, con precedenti penali e noto agli inquirenti per la frequentazione di pregiudicati. E nel processo, fra gli imputati più illustri figurano tra gli altri, Luigi Persegato, titolare della “Coseco” attiva in movimento terra, valorizzazione fondiaria e riutilizzo di inerti di cava o miniera, fratello della moglie di Giancarlo Galan ed Attilio Schneck, oggi presidente della “A4 holding”, società che controlla la “Serenissima Costruzioni”, già presidente in quota Lega e poi commissario governativo dell’ente Provincia di Vicenza, coinvolto nell’inchiesta, all’epoca dei fatti,  in qualità di presidente del Consiglio di amministrazione dell’ “Autostrada Brescia-Padova”.

I citati campanelli d’allarme suonati in passato sono di fonte ineccepibile e d’altra parte questi due casi, particolarmente gravi e significativi,  ne hanno dimostrato la piena validità. Ma vien da pensare che tali non siano ritenuti dai fautori dell’antimafia parolaia di facciata dal momento in cui esulano dai temi scelti per le iniziative che organizzano e dai discorsi che fanno sul fenomeno mafioso, imperniati esclusivamente sulle infiltrazioni, facendo finta di non sapere che è proprio la parola ‘fenomeno’ che indica non una parte, ma tutto ciò che della mafia si manifesta ed è suscettibile di osservazione e di studio. Ma – è il caso aggiungere – anche di divulgazione, come il dovere civico impone.

I “buchi neri” che si formano con questo modo di portare avanti il dibattito pubblico, invece, impediscono la visione a tutto campo del problema e la gente,  sentendo parlare di mafia in Veneto solo in termini di prevenzione e contrasto delle penetrazioni malavitose meridionali si convince sempre più di vivere in una eccellente regione, tutta pulita e cristallina, e che lo sporco, il marcio e il male arrivino soltanto d’oltre confine per cui tende a rifugiarsi nell’innato orgoglio regionalistico: un sentimento legittimo, ovviamente, ma non si può non considerare che quando diventa eccessivo scivola facilmente nel vittimismo campanilistico e, gradualmente, in una specie di “leghismo psicologico” nel quale miete consensi quello politico militante, sempre in agguato per dare ad intendere che tutto si possa risolvere innalzando barriere protettive lungo il Po.

Così resta in piedi e si corrobora, giustamente, la convinzione che il miele attira le mosche, nel senso che il Veneto, malgrado la crisi, è e rimane una zona ricca e quindi appetibile per criminalità mafiosa perché ideale per riciclare ed investire capitali di natura illecita, ma non si crea nell’opinione pubblica la consapevolezza della scarsa attenzione di grossi imprenditori veneti in trasferta nel Sud nell’avviare rapporti con soggetti al di sotto di vari sospetti, che con l’andar del tempo diventano di tipo collusivo, di altri che collaborano con personaggi della stessa risma da queste parti e di quelli di  piccolo e medio livello che, privi di risorse liquide ma anche di scrupoli, non solo  accettano offerte, ma fanno anche richieste di finanziamenti facili a personaggi chiaramente inaffidabili sapendo bene con chi hanno a che fare, come hanno dimostrato i clienti della “Aspide”.

Vie d’uscita irrinunciabili quando si è con l’acqua alla gola? Necessità di recintare con il filo spinato gli argini settentrionali del fiume sacro della Padania? Per il dottor Roberto Terzo, magistrato della Procura di Venezia impegnato in tante inchieste sulla mafia, le condizioni che possono favorire un ulteriore inquinamento mafioso del tessuto economico veneto vanno ricercate piuttosto nel «declino etico e morale presente nella società» perchè «l’iconografia del Veneto austroungarico estraneo al rapporto con il crimine è un’immagine non più reale».

Una prospettiva preoccupante, dunque, se si considera che nella relazione della Direzione Nazionale Antimafia pubblicata nel gennaio scorso si legge che nella nostra regione, mentre da un canto permangono «contatti e collegamenti cooperativi» di appartenenti ad organizzazioni mafiose del Meridione «con le locali realtà delinquenziali, ma anche imprenditoriali e commerciali», dall’altro si registra ancora una «insufficiente presa di coscienza da parte delle strutture amministrative e sociali, a cui spetterebbe l’adozione di più consapevoli strumenti di contrasto preventivo».

E con la corruzione diffusa ed accertata soprattutto a Venezia, ma anche, sia pure in misura minore, nel Veronese come la mettiamo? Anche su questo fenomeno, un quarto di secolo fa, c’era stato un monito di fonte autorevole. Nel maggio del 1990, parlando al mio fianco in un convegno a Castelfranco, alla domanda di una ragazza – «in tema di mafia noi, qui, oggi come oggi,  di cosa dobbiamo preoccuparci?» – Paolo Borsellino rispose subito: «Della corruzione: la corruzione è l’anticamera della mafia. Perché se un esponente delle organizzazioni mafiose va in cerca di punti di riferimento per riciclare o investire nell’economia legale capitali di origine illecita o per ottenere appalti pilotati dalla fuori  propria regione – spiegò – non può che rivolgersi a un uomo politico o ad un amministratore corrotto e quindi disponibile ad ulteriori intrallazzi».

Questione vecchia, dunque. «Il vero mafioso – scrisse infatti all’epoca Giorgio Lago, direttore de ‘Il Gazzettino’, in un editoriale  – è geniale: conosce bene i suoi polli sfruttando al meglio l’ingenuità, l’affarismo, la corruzione. Una questione di metodo, non di latitudine, e il metodo funziona a Palermo quanto a Padova o Vicenza o Udine».

Ora però, le valutazioni di fonti ufficiali basate sulle risultanze delle indagini svolte, oltre a confermare ciò che già si sapeva da tempo,  fanno conoscere una importante  novità  lasciando pensare che la mafia piaccia proprio anche a certi veneti.

«Così è se vi pare» diceva Luigi Pirandello. Ma anche se così non pare, le cose stanno proprio così. Purtroppo!


* Con la pubblicazione di questo articolo iniziamo la collaborazione con il  professor Enzo Guidotto, presidente dell’ “Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso” inteso come problema nazionale, autore di libri sull’argomento, consulente della Commissione parlamentare antimafia in due passate legislature ed attualmente membro di un gruppo di lavoro del MIUR che si occupa si iniziative sulla legalità nelle scuole.


Tratto da: eco-magazine.info




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