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La P2 entra nel processo sulla trattativa. Mario Mori, Licio Gelli e la "pista nera" PDF Stampa E-mail
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Scritto da Riccardo Lo Verso   
Martedì 16 Settembre 2014 17:57
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di Riccardo Lo Verso - 16 settembre 2014

PALERMO - Si parte da Mario Mori e si finisce a Licio Gelli, passando per Giorgio Ghiron, l'avvocato che gestì il patrimonio di don Vito Ciancimino.
Le indagini sulla trattativa Stato-mafia imboccano una pista nera, anzi nerissima. Alcuni verbali raccolti dai pubblici ministeri che indagano sul patto scellerato fra i boss e pezzi delle istituzioni sono stati trasmessi alla Procura generale che sta preparando il processo d'appello al generale dei carabinieri assolto in primo grado dall'accusa di favoreggiamento alla mafia.

Il procuratore generale Roberto Scarpinato e il sostituto Luigi Patronaggio stanno guardando dentro il mondo dei servizi segreti deviati. Un lavoro difficile segnato, come ha rivelato oggi il quotidiano 'la Repubblica', da un inquietante episodio. Nella notte fra il 2 e 3 settembre scorsi qualcuno ha lasciato una lettera di minaccia sulla scrivania di Scarpinato al primo piano del Palazzo di giustizia di Palermo. “Possono raggiungerti ovunque”, scriveva l'anonimo. L'invito era a stoppare le indagini nel cui fascicolo adesso sono confluiti i nuovi atti trasmessi dai pubblici ministeri Vittorio Teresi, Antonino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

Nei mesi scorsi è stato sentito Mauro Venturi, che nel 1971 era un ufficiale del Sid, i vecchi servizi segreti militari da cui Mori fu allontanato nel 1975. Venturi ricopriva il ruolo di capo della segreteria del Raggruppamento centri controspionaggio di Roma, allora diretto da Federico Marzollo, la persona più vicina all'ex numero uno del Sid Vito Miceli. Mori nel 1972 divenne il braccio destro di Venturi che ai pm palermitani ha raccontato dei rapporti intrattenuti dall'allora capitano Mori con una “fonte fiduciaria”. Si tratterebbe di Alberto Ghiron, fratello di Giorgio, il depositario di parte dei segreti economici di Vito Ciancimino, l'ex sindaco mafioso di Palermo. Sfruttando gli agganci del fratello, noto legale con studio anche a New York, Gianfranco sarebbe entrato in contatto con i servizi segreti americani. Venturi si è detto certo che i fratelli Ghiron lavorassero per il Sid e avessero rapporti esclusivamente con Mori. E ha aggiunto che Gianfranco era uno “della Destra più nera” ed aveva buoni rapporti con Mori, uno “nero quanto lui”.

Non è tutto perché Venturi ha aggiunto dei tentativi ripetuti da parte di Mori di convincerlo ad iscriversi alla P2 che lo stesso ufficiale dei carabinieri avrebbe definito “una loggia massonica diversa dalle altre”. Anche perché, e sarebbero state anche queste parole del generale dell'Arma allora ancora capitano, “Gelli era intenzionato come non mai ad affiliare persone del Sid”. Mori gli avrebbe pure proposto di andare insieme a casa di Gelli. Un invito che Venturi avrebbe declinato nonostante Mori lo avesse tranquillizzato, garantendogli l'inserimento in “liste protette” della loggia massonica.

I pm palermitani hanno pure scovato un verbale di Gianfranco Ghiron, ormai deceduto come il fratello. Nel 1975 venne convocato dal giudice istruttore di Brescia che stava indagando sull'estremismo di destra. Un anno prima, il 28 maggio 1974, una bomba piazzata dentro un cestino della spazzatura era esplosa in piazza della Loggia provocando otto morti mentre era in corso una manifestazione sindacale contro il terrorismo neofascista. Ghiron allora fece delle ammissioni, parlando di una fonte, Amedeo Vecchiotti, nome in codice “Piero”, estremista di destra in carcere. Ghiron avrebbe messo in contatto la sua fonte con Mario Mori. Nel novembre del 1974 Ghiron ricevette un messaggio da Piero. Lo avvertiva che la settimana successiva Licio Gelli sarebbe partito per la Francia e da lì in Argentina. Qualcuno lo aveva messo in preallarme: per il maestro venerabile era pronto un mandato di cattura. Ghiron avrebbe dovuto comunicare la faccenda al “dottor Amici”. I pm di Palermo ritengono che si tratti del nome in codice con cui il Sid aveva arruolato Mori. A dire il vero ne sono certi in virtù di una patente assegnata dai servizi segreti a Mori sotto la falsa identità di “Giancarlo Amici”. Piero riteneva necessario avvertire Mori per capire se la partenza di Gelli potesse danneggiare “mister Vito” in modo da decidere se bloccare o meno la partenza. Il biglietto si concludeva con la raccomandazione: della vicenda non doveva essere informato “uno che si caga sotto davanti a un giudice ragazzino e attacca un collega ex superiore”. Insomma, uno che si meritava, a detta di Piero, l'appellativo di “concentrato di merda”. Pochissimi i dubbi degli inquirenti. “Mister Vito” sarebbe Vito Miceli, ex direttore del Sid, mentre gli insulti erano destinati a Gianadelio Maletti (ex numero due dei servizi militari). Maletti era l'uomo che stava collaborando in maniera proficua con il pubblico ministero di Padova, Giovanni Tamburino (fino a pochi mesi fa a capo del Dap, ndr), che allora stava indagando sulla Rosa dei Venti, un'organizzazione segreta paramilitare coinvolta anche nel piano Solo, il tentativo di golpe messo a segno dal generale De Lorenzo. Nell'inchiesta venne coinvolto e arrestato lo stesso Miceli.

Fu Tamburino a chiedere al Sid una foto segnaletica di Mori. Perché?, si sono chiesti i pm. E perché Mori venne allontanato dal Sid urgentemente con la disposizione tassativa di lasciare Roma? I magistrati palermitani lo hanno chiesto direttamente a Tamburino. Anche il suo verbale è stato depositato al processo Trattativa. Tamburino ha ricordato che la richiesta avvenne nell'ambito delle indagini sulla Rosa dei Venti che lui stesso ha definito “un'organizzazione di estremisti neri e militari in servizi al Sid, appoggiata dalla P2, che lavorava ad un progetto di golpe”. E la foto? Tamburino ha riferito che nel 1974 quando venne arrestato Amos Spiazzi, un tenente colonnello in servizio a Verona, furono ritrovate nella sua abitazione armi, cimeli nazisti e un codice per operazioni militari riservate. In quell'inchiesta a Spiazzi veniva contestato di avere attivato una cellula della Rosa dei Venti nel Veronse, dopo avere ricevuto un preciso ordine dalla sua “linea di comando”. Che nulla aveva a che vedere con le gerarchie militari ufficiali se, come raccontò Spiazzi, l'ordine gli fu dato in una località sul lago di Garda da un capitano. Lui, tenente colonnello, dunque, avrebbe ricevuto ordini da un militare che, nella gerarchia ufficiale era un suo sottoposto.

Tamburino non ebbe il tempo di mostrare la foto a Spiazzi perché, una ventina di giorni dopo, la Cassazione decise che la competenza dell'indagine sulla Rosa dei Venti doveva essere trasferita a Roma per riunirla, nonostante fossero episodi, luoghi e circostanze diverse, all'inchiesta sul Golpe Borghese. Il 4 gennaio del '75 l'ex generale Maletti chiese al direttore del Servizio facente funzioni, l'ammiraglio Mario Casardi, di allontanare Mori dal Servizio “nel più breve tempo possibile”. Il 9 gennaio Casardi emise un provvedimento: Mori doveva lasciare il territorio di Roma.

Tornando alle dichiarazioni di Venturi, c'è un ulteriore passaggio su cui si dovrà fare chiarezza. L'uomo, oggi ottantenne, ha riferito anche dell'abitudine investigativa di Mori, durante gli anni al Sid, di servirsi di scritti anonimi. Ha pure aggiunto che l'ufficiale aveva il compito di gestire i rapporti con il periodico Op di Mino Pecorelli, assassinato nel 1979, nella cui sede Mori si sarebbe recato per scrivere, materialmente, alcuni dei suoi anonimi.
 

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