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Custodia cautelare, colpo di mano in Aula: il Pd prova ad abolirla PDF Stampa E-mail
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Scritto da Gianni Barbacetto   
Domenica 06 Aprile 2014 20:02
di Gianni Barbacetto - 6 aprile 2014

L’ultimo allarme è arrivato dal procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone: “Stanno rendendo impossibile l’arresto, anche domiciliare, per delitti che considero di un certo allarme sociale”, ha detto a un convegno. Si riferiva agli esiti della riforma della custodia cautelare, approvata il 2 aprile dal Senato e ora passata alla Camera. Con gli ultimi emendamenti approvati, il giudice non potrà disporre il carcere e neppure la detenzione in casa, se è prevedibile che l’indagato possa essere condannato a pene inferiori a 4 anni di carcere. “Questo significa lasciare fuori la corruzione e gli altri reati tipici dei cosiddetti colletti bianchi, comprese le bancarotte, le evasioni fiscali anche di grandi dimensioni, malversazioni e altre violazioni di tipo economico”, ha spiegato Pignatone. “Ma non solo: il legislatore deve sapere che così non si potrà arrestare nemmeno chi compie delitti di strada come lo scippo, il furto, fino alla rapina, a meno che uno non entri in una banca impugnando il kalashnikov”.

La legge che modifica la custodia cautelare ha una storia lunga. Il Pd aveva presentato in Parlamento un testo su questa materia anche nella scorsa legislatura. Ne ripropone uno simile nella primavera scorsa, primi firmatari Donatella Ferranti (nella foto, ndr), Andrea Orlando, Anna Rossomando, con l’appoggio anche di Gennaro Migliore e dei parlamentari di Sel. Spiega Ferranti, oggi presidente della commissione Giustizia della Camera: “La nostra proposta cercava di rispondere al sovraffollamento delle carceri in cui, su 60 mila detenuti complessivi, 23 mila sono in custodia cautelare. E poi alle sentenze della Corte costituzionale, che dal 2010 in poi bocciano le norme dei cosiddetti pacchetti sicurezza che rendono automatico l’arresto per tutta una serie di reati. L’automatismo, dice la Consulta, ci può essere solo in caso di mafia. In tutti gli altri casi va motivato caso per caso”. Il testo passa dalla commissione Giustizia della Camera (che ascolta in audizione anche l’Associazione nazionale magistrati) all’aula di Montecitorio, poi passa al Senato, dove viene approvato il 2 aprile con l’opposizione della Lega e l’astensione del Movimento 5 stelle.

“Il problema – spiega Ferranti, – è che, nel viaggio, il nostro testo ha subìto molte modifiche”. In più ha ricevuto l’innesto di alcune proposte formulate dalla commissione ministeriale guidata dal presidente della Corte d’appello di Milano, Giovanni Canzio. “Ora il pacchetto torna alla Camera con una formulazione diversa da quella iniziale e che – ammette Ferranti – effettivamente presenta alcuni problemi”. Il più grave lo indica Maurizio Carbone, segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati (che il Senato non ha ritenuto di consultare): “La custodia cautelare in carcere, o anche agli arresti domiciliari, viene esclusa in tutti quei casi in cui l’indagato potrebbe avere, alla fine del suo percorso processuale, una pena diversa dal carcere”. Dunque: niente cella per chi potrà essere condannato fino a 2 anni, perché potrà beneficiare della sospensione condizionale della pena; ma niente carcere neppure per chi potrà essere condannato fino a quattro anni, perché fino a quella soglia si prevedono misure alternative al carcere. Con una soglia così alta, resteranno fuori anche i responsabili di reati gravissimi, come denuncia Pignatone.

Ma non solo: questa legge trasforma il giudice delle indagini preliminari, che deve decidere se arrestare o no, in una sorta di Mago Otelma che deve prevedere il futuro. “Non dovrà più valutare le esigenze cautelari al momento del fatto commesso – spiega Carbone – ma dovrà prevedere l’approdo finale dell’iter processuale”. Una specie di pratica divinatoria che dovrebbe anticipare una sentenza definitiva che arriverà dieci anni dopo. E che dovrebbe tener conto di tutti gli sconti di pena possibili nel nostro sistema. Questo è anche in contraddizione con lo spirito della legge, almeno quello proclamato: la custodia cautelare, dicono i “riformatori”, non può essere un’anticipazione della pena definitiva. Giusto: ma proprio per questo deve dunque essere presa sulla base delle esigenze cautelari nel momento in cui il reato è commesso, non anticipare la pena futura.

Carbone constata che il testo legislativo almeno un miglioramento lo ha avuto, nel suo viaggio, e proprio grazie ai suggerimenti dell’Associazione nazionale magistrati. È stato eliminato l’obbligo di lasciar fuori, per esempio, chi abbia commesso un omicidio, magari con modalità efferate, ma che è incensurato.


Gianni Barbacetto (da Il Fatto Quotidiano del 6 aprile 2014)



 

Custodia cautelare, anche i mafiosi potrebbero brindare

Se la nuova norma sulla carcerazione preventiva fosse già legge, uno come Antonio Rognoni, ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde, tra i grandi registi delle opere di Expo, non sarebbe finito in carcere. Il reato per cui è accusato, infatti, è la turbativa d’asta la cui condanna parte da un anno. Lo stesso dicasi per Lele Mora arrestato nel 2011 per bancarotta e finito a Opera. Il reato parte da un minimo di due anni. Senza contare che spesso anche i casi connessi alla mafia vengono puniti con sanzioni minime. Sì, perché qua il tetto è quello dei tre anni che diventano quattro quando si tratta di arresti domiciliari. Sotto questi limiti il codice prevede che l’esecuzione della pena venga sospesa.

Da ciò prende spunto la proposta di limitare la custodia preventiva. Tradotto: in questi casi niente carcere fin da subito. Ecco, in sostanza, la novità contenuta nella norma al vaglio del Parlamento. Sulla carta, l’obiettivo è tutelare i diritti degli indagati, come segnalato spesso dalla Corte Costituzionale, ed evitare il sovraffollamento delle carceri. Tradotto: il 90% dei reati compiuti, se la proposta diventerà legge, non prevede l’arresto preventivo alla chiusura delle indagini preliminari. Per capire, le persone coinvolte nell’indagine milanese sulla società Kaleidos che ha scoperchiato la rete formigoniana della Compagnia delle opere, braccio finanziario di Comunione e liberazione, l’avrebbero fatta franca senza finire dietro le sbarre. Anche qui il reato è turbativa d’asta. E dunque, ragionando sul come potrebbe essere, niente carcere ma misure alternative.

La parola magica è “pena edittale”, ovvero la previsione del minimo richiesto dal codice. Un minimo che se non supera i 4 anni impone al giudice di calcolare una sentenza definitiva che non preveda il carcere. Una prognosi che deve essere ben motivata. Pena, l’annullamento dell’ordinanza. Ed è proprio partendo da questa prognosi che la nuova norma non chiede ma impone al giudice di escludere le manette (e i domiciliari) nella fase della custodia cautelare. Dentro, come detto, ci finisce di tutto: dal furto alla rapina ai reati da colletti bianchi e contro la pubblica amministrazione. Per la bancarotta il codice prevede pene a partire da due anni. In tutti questi esempi, la nuova norma affida un’ampia discrezionalità al giudice. In un caso come quello del faccendiere Pierangelo Daccò, accusato del crack San Raffaele, probabilmente nessun gip, vecchia o nuova legge, avrebbe concesso misure alternative. Daccò è stato condannato a 9 anni in Appello.

Ma non ci sono solo i reati contro la pubblica amministrazione come la corruzione, ci sono anche quelli predatori che hanno forti ricadute sul fronte dell’allarme sociale. E anche qui qualche problema potrebbe insorgere. La nuova norma non prevede la custodia in carcere per gli scippatori oppure per i furti o, in certi casi, anche per i rapinatori. Il rischio è immaginabile: con una direzione normativa del genere ci si potrebbe trovare davanti all’eventualità di fermare uno scippatore già in attesa di giudizio. Il codice, per questo reato prevede pene che partono da un minimo di un anno.

E poi c’è la mafia. In questo caso a rischio sono anche i partecipi dell’associazione mafiosa (416 bis) che non hanno il ruolo di capi e che molto spesso incassano condanne inferiori ai quattro anni. Per chi, invece, ha ruoli apicali il carcere è obbligatorio. E poi ci sono i reati connessi. Come la droga. Non l’articolo ex 74, ma il 73 che punisce lo spaccio semplice. In elenco anche i reati contro la pubblica amministrazione aggravati dall’articolo 7 (il metodo mafioso). In questo caso la nuova norma li associa all’omicidio, al sequestro di persona, all’estorsione. Tutti casi per i quali il legislatore dice al giudice: il carcere è la via principale, ma è necessario perlustrare tutte le altre misure alternative prima di decidere. Su queste pesa la reiterazione del reato che ora dovrà essere dimostrata a partire dall’attualità. Insomma, la norma se da un lato assolve alla necessità di tutelare i diritti evitando gli abusi, dall’altro rischia di ridurre lo strumento della custodia preventiva.


di Davide Milosa (da Il Fatto Quotidiano del 6 aprile 2014)




Se una legge rischia di lasciare liberi rapinatori, scippatori e bancarottieri

«Se quella norma diventerà legge noi l’applicheremo senza problemi‘ annuncia il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, ‘però mi auguro che il Parlamento ci pensi bene, per non trovarsi costretto a tornare sui propri passi al prossimo allarme sulle città insicure, o sulla criminalità diffusa che si fatica a contenere». Il magistrato che prima di approdare nella capitale ha lavorato a lungo in Sicilia e in Calabria parla a Palermo, in un convegno intitolato «Ripensare l’antimafia». Ma fra tanti aspetti che riguardano il contrasto a Cosa nostra, sceglie di puntare l’attenzione sulla riforma della carcerazione preventiva appena approvata dal Senato e in attesa dell’ultimo passaggio alla Camera; una questione che coinvolge molte più persone di boss e picciotti, accusate di reati d’altro tipo. E le loro vittime. «Io capisco le ragioni delle modifiche, e sono d’accordo sulla necessità di ridurre la custodia cautelare al minimo indispensabile, quando proprio non se ne può fare a meno‘ spiega. ‘Però stanno rendendo impossibile l’arresto, anche domiciliare, per delitti che considero di un certo allarme sociale». Con gli ultimi emendamenti approvati, il giudice non potrà disporre il carcere né la detenzione in casa se è prevedibile che l’indagato venga condannato nell’ultima sentenza a pene inferiori a quattro anni di galera. «Il che significa‘ traduce il procuratore ‘lasciare fuori la corruzione e gli altri reati tipici dei cosiddetti ‘colletti bianchi’, comprese le bancarotte, le evasioni fiscali anche di grandi dimensioni, malversazioni e altre violazioni di tipo economico. Ma non solo. Il legislatore deve sapere che così non si potrà arrestare nemmeno chi compie delitti di strada come lo scippo, il furto, fino alla rapina, a meno che uno non entri in una banca impugnando il kalashnikov. Potremo applicare la carcerazione preventiva solo a chi ha precedenti condanne definitive, forse, ma agli incensurati no. Spero che deputati e senatori siano consapevoli di quello che stanno facendo, prima delle prevedibili polemiche in cui ci si chiederà perché un presunto rapinatore si trovava libero di colpire ancora anziché in galera». Secondo Pignatone la riforma è «contraddittoria» in alcuni aspetti, e indebitamente «mescola l’esigenza immediata di salvaguardare l’inchiesta dall’inquinamento delle prove, dal pericolo di fuga dell’inquisito e dalla reiterazione del reato con una difficile prognosi sulla sentenza definitiva che arriverà chissà quando». Un allarme condiviso dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli. Non per una particolare inclinazione ad arrestare senza limiti, par di capire, ma per invitare a legiferare avendo ben presente quello che potrà succedere. Sul voto di scambio politico-mafioso il Parlamento ha mostrato di saper ascoltare le voci autorevolmente critiche, e sarebbe auspicabile che anche in questo caso valutasse certe considerazioni. Almeno per contrapporre valide ragioni, se dovesse decidere di non cambiare strada. Senza rinnegarle dopo.

Bianconi Giovanni
(05 aprile 2014) - Corriere della Sera











 







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