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'Il partito della polizia', il libro sul lato violento delle forze dell’ordine PDF Stampa E-mail
Rubriche - Libri
Scritto da Ferruccio Sansa   
Venerdì 21 Marzo 2014 19:37
di Ferruccio Sansa - 21 marzo 2014

Il water boarding a Totò Riina. Il capo di Cosa Nostra sottoposto a trattamenti non proprio ortodossi da parte della polizia. Parliamo degli anni ‘60, quando Riina era un picciotto a inizio carriera. Una storia inedita, svelata dal libro Il partito della polizia, edizioni Chiarelettere, in libreria da oggi (vai al sito), scritto da Marco Preve, uno dei migliori giornalisti d’inchiesta di Repubblica. Per rispolverare quella vecchia pagina, il cronista ha scovato un breve passaggio nelle carte di un processo di Perugia. È il 15 ottobre del 2013. Al banco dei testimoni c’è Salvatore Genova, funzionario di polizia in pensione, ma ex commissario della squadra che liberò il generale Dozier rapito dalle Br nei primi anni ‘80. Genova è stanco di portare il peso dei ricordi degli abusi di quel periodo e racconta la sua storia nel processo che si concluderà con una pesante verità: l’ex brigatista Enrico Triaca venne torturato. Genova però aggiunge altro.
Riferendosi a un colloquio sulla pratica del water boarding (versando acqua sul volto del torturato si induce una terribile sensazione di annegamento) con il capo della squadretta di torturatori, il funzionario Nicola Ciocia soprannominato De Tormentis, spiega: “Lui stesso (De Tormentis-Ciocia) diceva ‘non tutti parlano, perché ricordava quando era stato in Sicilia negli anni ’60. Avevano preso Totò Riina e un altro… E a quei tempi si usava proprio da tutte le parti questo sistema’. E allora Ciocia disse: ‘Vedi, le persone quando hanno le palle non parlano, ed era Totò Riina’”. Preve ricostruisce gli anni delle torture. E gli episodi di violenza che costituiscono una delle pagine più nere della storia recente della polizia.

Un filo unisce le vicende: il disprezzo nei confronti di alcune vittime considerate drogati o balordi come Federico Aldrovandi o Giuseppe Uva. Per l’avvocato dei famigliari Fabio Anselmo (assiste anche i Cucchi), è un atteggiamento tenuto con metodo per denigrare chi ha subìto gli abusi e renderlo così “meno vittima” agli occhi dell’opinione pubblica. Ma il cardine del Partito della polizia è rappresentato dalla ricostruzione del gruppo di potere che ruota attorno a Gianni De Gennaro. Molte pagine sono dedicate ai rapporti con la politica e il legame con esponenti della sinistra come Luciano Violante (non è l’unico, però, a coltivare amicizie a prova di condanna con i super poliziotti).

Preve non si ferma qui. Racconta le carriere di poliziotti incappati in clamorosi incidenti professionali. Tratteggia la sorprendente rete di protezione di cui hanno goduto i super poliziotti condannati per la macelleria messicana e le false molotov nella Diaz del G8; gli appalti da centinaia di milioni gestiti da detective con scarsa dimestichezza con la matematica. Fino al capitolo dedicato alle opacità nella scelta dei membri della Direzione investigativa antimafia. Una sentenza inedita rivela un lato nascosto della Dia. È quella che dopo vent’anni riconosce a un commissario dei primi anni ’90 un risarcimento per non essere entrato nei ranghi dell’Fbi italiana nonostante avesse vinto il concorso.

Gli vennero preferiti altri colleghi scelti con un metodo che i giudici del Consiglio di Stato definiscono poco trasparente. Un’inchiesta scomoda, quella di Preve, ma non contro la polizia. Anzi. Il riconoscimento dell’importanza e della delicatezza del suo ruolo esige particolare rispetto, ma anche trasparenza. Un libro che è un contributo per trasformare la polizia e ridare fiducia ai tanti commissari Montalbano che lavorano in tutte le questure d’Italia.


Ferruccio Sansa (Il Fatto Quotidiano del 21 marzo 2014)




 

Se la Polizia si fa partito

Giuseppe Uva morì il 15 giugno del 2008 in ospedale, dopo che nella notte era stato fermato dalle forze dell'ordine, ubriaco nelle strade di Varese. Sei anni dopo i suoi genitori non sanno la verità su quella notte: soltanto pochi giorni fa il gip Battarino ha richiesto alla Procura di Varese l'imputazione coatta per due carabinieri e sei poliziotti. Una vicenda che è impossibile non collegare a quella, in parte simile, di Stefano Cucchi. O di Federico Aldrovandi. Per non parlare dell'indimenticabile ferita del massacro della Diaz.
Tutte storie in cui la polizia, garante dei diritti dei cittadini, ha mostrato il suo lato peggiore. Violento. Senza pagarne il prezzo. Perché il "partito della polizia è troppo forte, ha fatto carriera, occupato i vertici e gode di protezione politica bipartisan", ha detto a Cadoinpiedi.it Marco Preve, giornalista di La Repubblica e autore di Il partito della polizia (Chiarelettere, 2014). "Gli ultimi vent'anni di storia italiana ci dimostrano che c'è un gruppo, quello di De Gennaro e dei De Gennaro boys, che non si tocca".

DOMANDA: Pochi giorni fa il tribunale di Varese ha riaperto il caso Uva, cosa ne pensa?
R: Il caso Uva l'ho affrontato nel capitolo Vittime di stato con un'intervista all'avvocato Fabio Anselmo, che ha rappresentato i familiari di Uva, di Aldrovandi, di Stefano Cucchi. Lui dice che c'è un meccanismo ricorrente in queste vicende.

D: Cioè?
R: C'è un intervento sempre scomposto, violento e omicida della polizia, al di là delle intenzioni. Una seconda fase è quella della copertura - falsificazione di prove, omissioni, relazioni di servizio nascoste o modificate - poi segue la fase della pubblica denigrazione delle vittime. Aldrovandi è drogato, Cucchi è un tossico. Uva un ubriacone.

D: Perché questo?
R: Ha una valenza psicologica, la vittima sembra meno vittima. Nel padre, nella madre di famiglia che vede che capita al tossico, o all'ubriacone scatta il pensiero: "Ah, allora ai miei figli che sono bravi non può capitare". E invece no. Può capitare a chiunque.

D: Emerge un forte aspetto mediatico, una strumentalizzazione dei media a uso di difesa in questa vicenda.
R: Infatti Anselmo dice: "Ho fatto una scelta quando ho iniziato a occuparmi di questi casi: certi processi se non li porti avanti anche dal punto di vista mediatico non hai possibilità di vincere".

D: Nel caso Cucchi le guardie carcerarie sono state assolte con una formula che ricorda l'insufficienza di prove.
R: Nella vicenda di Cucchi ci sono due verbali delle testimonianze rese dal Gip e dal Pm che fecero arrestare Cucchi. Nessuno si era accorto di nulla, uno dice di non averlo guardato negli occhi, uno che non aveva avuto l'opportunità di guardarlo in faccia. È il ritratto di una giustizia a ritmi industriali, snaturata, estremamente fredda nei suoi automatismi, che toglie qualsiasi spazio alla sensibilità umana.

D: Che in questo caso ha aiutato la polizia.
R: Infatti ho sottolineato, in riferimento al caso Diaz come sia difficile a volte per le istituzioni, per la politica, la magistratura, andare contro o addirittura perseguire il loro miglior alleato, ovvero la polizia.

D: Alcuni dei coinvolti nel caso Diaz sono stati promossi, non è vero?
R: Di più, alcuni personaggi di quella vicenda attraversano epoche della storia del Paese. La Diaz è fondamentale perché è la prima volta in Italia, ma forse in Occidente, dove c'è la condanna di poliziotti di così alto grado. È un unicum e si spera che rimanga tale. Ci fu la violenza, la falsificazione di prove. Per assurdo si potrebbe dire "può capitare" e invece no. La Diaz è fondamentale per vedere gli intrecci di potere a livello di coperture e interessi. La polizia fece quadrato, le istituzioni anche, alcune delle figure coinvolte vengono salvaguardate fino alla Cassazione. E De Gennaro, che pure non risultava indagato, aveva comunque una responsabilità gerarchica in quella vicenda. Ma ha fatto la carriera che sappiamo.

D: La Diaz è stato forse il momento in cui i rapporti tra polizia e cittadini si sono fortemente incrinati. E' corretto?
R: Assolutamente. E' un fatto che ha segnato e continuerà a segnare intere generazioni, soprattutto per l'assenza di una soluzione in tempi brevi. Se ci fosse stata una reazione del Paese, del governo, forse poteva essere tutto sommato archiviata. Quella vicenda ha creato una ferita non solo in una parte ideologizzata, quella dei centri sociali e dei movimenti, perché a Genova c'erano tanti giovani dei movimenti pacifisti. È stata una ferita vera e propria per la democrazia.

D: Come definire quello che è successo dopo?
R: È la dimostrazione dell'esistenza di un gruppo all'interno della polizia che io chiamo "il partito della polizia" perché si muove come un partito, con rapporti di potere molto stretti con altri poteri.

D: Chi ne fa parte?
R: Nasce nell'ultimo ventennio sotto il segno di Gianni De Gennaro e dei De Gennaro Boys. Manganelli, Pansa, appartengono tutti a quel gruppo nato negli anni Novanta e formatosi nella lotta alla mafia ottenendo grandi riconoscimenti. Sia chiaro: un episodio non può cancellare tutto quanto fatto prima, ma chi si macchia di una vicenda gravissima dovrebbe farsi da parte.

D: E invece?
R: Questo non avviene perché c'era stata un'occupazione del gruppo di potere ai vertici. Si tratta di chi decide i questori, i prefetti. Non dimentichiamo che prima della spending review di Monti il capo della polizia guadagnava 500-600 mila euro, quasi 8 volte quello che guadagna il capo dell'americana Fbi. E gestiva i Pon sicurezza, appalti che hanno sfiorato il miliardo di euro, tutti decisi all'interno del Viminale e che in alcuni casi hanno portato a delle inchieste, come quella che a Napoli coinvolge Finmeccanica. È una vera e propria ramificazione del potere.


D: Tutto questo mentre la quotidianità degli agenti è spesso piena di difficoltà.
R: Assolutamente, c'è un malessere fortissimo tra i giovani commissari. Lamentano scarsa meritocrazia, la carriera si fa in base a rapporti di amicizia, a collegamenti con poteri politici o istituzionali. E poi c'è la difficoltà giornaliera di far quadrare soldi e doveri. Molti funzionari ricorrono alla giustizia amministrativa, per esempio per protestare contro la raccomandazione.

D: E come va a finire?
R: Scatta una sorta di isolamento, perché chi prende strade in contrapposizione viene messo da parte. Nel libro racconto la storia di un commissario che nel 1992, alla nascita della Dia, aveva diritto a entrarci tramite un concorso. Ma non è così, perché i membri vengono tutti indicati dai vertici. Dopo una battaglia ventennale ha vinto davanti al Consiglio di Stato. Ma ora non è più nella polizia: deluso, fa il magistrato.


di Redazione cadoinpiedi.it (21 marzo 2014)


















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