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Trattativa Stato-mafia, Giuffrè: 'Il risultato della strategia delle bombe fu ottenuto' PDF Stampa E-mail
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Scritto da Simone Ferrali   
Sabato 30 Novembre 2013 19:44

“Esplicitamente non è venuto nessuno a dirmi di non collaborare. Però, sono stato oggetto, per due volte, dell’invito a mettermi un sacchetto di plastica in testa, un invito a suicidarmi. Nelle celle usavamo sacchetti della spazzatura forati. Un agente del Gom invece mi ha fornito sacchetti integri e mi ha detto: ‘Questo te lo devi mettere in testa’. Quando ho deciso di chiedere un incontro con l’allora Procuratore capo di Palermo, Pietro Grasso, l’ho fatto tramite la direttrice del carcere e non attraverso gli agenti. Non mi fidavo…”. Con uno sfogo in fase di contro-esame, si è conclusa la deposizione di Nino Giuffrè al processo “Bagarella + altri” (Trattativa Stato-Mafia). Rispondendo alle domande dell’avvocato Milio, legale di Mori, Subranni e De Donno, il collaboratore di giustizia è tornato a parlare del ruolo di Provenzano, nel periodo immediatamente successivo all’arresto di Riina: “Inizialmente, si accodò a Bagarella, temeva Bagarella. Nella prima fase, Provenzano era d’accordo con le bombe, con la strategia della destabilizzazione. Con noi (l’ala provenzaniana, ndr) però, usava un linguaggio differente, un linguaggio della sommersione: per essere chiari, usava linguaggi differenti a seconda delle circostanze”. In sostanza, il boss faceva buon viso a cattivo gioco: di fronte a Bagarella appoggiava il ricorso alle bombe, ma sottobanco perseguiva già la “strategia della sommersione”.

 

Gli attentati provocarono un cedimento dello Stato in favore di Cosa nostra: almeno in parte “il risultato della strategia era stato ottenuto, perché strada facendo c’era stata l’attenuazione del 41-bis, il tentativo di togliere qualche 41-bis, la modifica della legge sui pentiti”. Oltre all’ottenimento di misure favorevoli, la strategia stragista aveva fatto raggiungere all’organizzazione un altro obiettivo perseguito da tempo: “la ricerca di altri esponenti politici”. Sul finire del ’93 infatti, “con il nascere di Forza Italia”, “si fece avanti Dell’Utri”, che dette garanzie all’organizzazione mafiosa. Fino a quel momento però la discussione sulle stragi non si fermò, in quanto lo Stato “prendeva in giro” Cosa nostra, revocando le misure favorevoli alla mafia precedentemente approvate.

 


Nel corso del contro-esame, Giuffrè si è soffermato sugli omicidi di Falcone e Borsellino, “entrambi nemici giurati di Cosa nostra”: quando la Mafia vuole uccidere un personaggio conosciuto, prima lo isola e poi lo ammazza. Così è avvenuto con i due giudici siciliani, ritenuti pericolosi "non solo nel contesto mafioso, perché parliamo di" magistrati che hanno colpito "interessi economici che vanno oltre l’organizzazione".

 


Al centro della deposizione del pentito anche il ruolo dell’allora Procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco, “persona molto discussa” in Cosa nostra, famosa per i suoi “non buoni rapporti con Falcone e Borsellino”. Secondo Giuffrè, “il rapporto Mafia-appalti”, che preoccupava fortemente l’organizzazione, “fu presentato a Giammanco, parente del capo ufficio del Comune di Bagheria, il cui figlio era intestatario dell’impresa della moglie di Provenzano”. Proprio sul Procuratore capo, l’organizzazione cercò di fare pressioni, affinché provvedesse “all’annacquamento” dell’indagine. Il rapporto, sul quale vi fu “una fuga di notizie”, “venne un pochino manipolato (Giuffrè non ha specificato però se da Giammanco o da altri, ndr)”.

 


L’udienza odierna si è conclusa con la discussione sull’acquisizione della lettera del capo dello Stato e sulla possibilità di cancellare la sua testimonianza. L’Avvocatura dello Stato (insieme ai legali Di Peri e Milio), per bocca del solito avvocato Dell’Aira, si è schierata (nuovamente) contro la chiamata a deporre di Napolitano ed a favore della produzione della missiva presidenziale. Alle richieste di Dell’Aira si è opposta la Procura: “Io trovo la lettera (del capo dello Stato, ndr) curiosa. Non pensiamo che una testimonianza ritenuta valida dalla Corte, possa essere surrogata da una lettera. Non rinunciamo al teste e ci opponiamo all’acquisizione del documento”, ha dichiarato l’aggiunto Teresi. La tesi dei requirenti ha trovato il consenso dei legali Barcellona (Centro studi Pio La Torre), D’Agostino (Massimo Ciancimino), Fiormonti (Giovanni Brusca) e Airò Farulla (Comune di Palermo). Proprio quest’ultimo ha colto il punto centrale della questione: “Se consentissimo ad un soggetto, seppur il presidente della Repubblica, con una semplice lettera, senza giuramento, di non testimoniare, si formerebbe un precedente pericolosissimo. Se il presidente non ha nulla da dire, ce lo dirà sotto-giuramento“.

 


La prossima udienza (5-12-2013) sarà dedicata all’esame del collaboratore di giustizia Francesco Messina.

 

Simone Ferrali

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