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Mori da Porro, tra bugie e mezze verita' PDF Stampa E-mail
Editoriali - Editoriali
Scritto da Federico Elmetti   
Venerdì 13 Settembre 2013 08:50

di Federico Elmetti - 13 settembre 2013

 

Nel variopinto panorama della cosiddetta Antimafia, compaiono personaggi di ogni fattispecie, da quelli affetti da iperprotagonismo a quelli attenti a ponderare i singoli vocaboli. Tra i primi vi è certamente l'ex magistrato Giuseppe Ayala, che pur di apparire e rilasciare interviste ai giornalisti, non si dà troppa pena di riuscire ogni volta a contraddire in modo clamoroso le proprie precedenti dichiarazioni. Tra gli ultimi invece, vi è di sicuro il generale Mario Mori che, durante le sue lunghe ed estenuanti vicende processuali (falsa testimonianza al processo Contrada, mancata perquisizione del covo di Riina, mancata cattura di Bernardo Provenzano, cosiddetta trattativa stato-mafia) si è sempre distinto per aver mantenuto un basso profilo. Sempre parsimonioso con le parole, dispensate ai magistrati in sede di dichiarazioni spontanee limate a tavolino, meticoloso e maniacale nel tentare di ricostruire le proprie versioni nel modo più credibile e coerente possibile.   

Giovedì 4 Settembre però, ringalluzzito dall'assoluzione in primo grado nel processo sulla mancata cattura di Provenzano "perchè il fatto non costituisce reato", Mori ha deciso di apparire in televisione e di rilasciare un'intervista di una ventina di minuti al giornalista Nicola Porro, conduttore del programma Virus - Il Contagio delle Idee in prima serata su Rai2. E l'ha fatto probabilmente per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Ma l'ha fatto imbastendo dei discorsi che mescolano episodi indubbiamente veri con ricostruzioni palesemente fantasiose che, proprio perchè tali, lasciano molti dubbi sull'attendibilità generale di ogni vicenda raccontata.   

Il problema, ovviamente, non è Mori, che difende (e difenderà sempre, anche contro l'evidenza) la correttezza del suo operato. Il problema è il giornalista che gli sta di fronte, che cercando di sembrare imparziale e particolarmente "cattivo" nella scelta delle domande, fa invece da spalla al suo interlocutore. Recita una parte studiata sapientemente dietro le quinte, volta a far emergere l'intervistato come facile vincitore del confronto televisivo. Annullando quindi ogni possibilità di far emergere la verità, che come sempre si nasconde nei dettagli. E quando i dettagli sfumano, la verità sfuma di conseguenza.  

 

STASERA DOBBIAMO ESSERE SINCERI

E sí che l'intervista era iniziata con dei buoni propositi ("Siccome dobbiamo essere sinceri questa sera..."). La prima domanda è facile facile. Quasi una carezza. Il generale Mori, o lo si ama o lo si odia. Perchè? Mori, probabilmente sorpreso da tanta inaspettata perfidia, stecca alla prima. Tradito dalla gola secca, non gli escono le parole. Bicchiere d'acqua in soccorso dalla regia. E la prima domanda è già bruciata senza che nemmeno sia stata imbastita una risposta. Porro prende tempo e si avventura in una distinzione improbabile tra criminalità comune e criminalità organizzata. Spiega: "La criminalità organizzata sono mafia e terrorismo, la criminalità comune è quella che ci riguarda". Come se mafia e terrorismo non ci riguardassero. Va be'.
 

PORRO E QUELLE ESPRESSIONI INTELLIGENTI 

Capendo di averla sparata grossa, Porro preferisce sia Mori a spiegargli quale sia la differenza di intervento nel contrasto alla criminalità organizzata e a quella comune. Domanda banale, ma assolutamente utile nella struttura preconfezionata dell'intervista, che ha un fine preciso e un messaggio precostituito da far passare. Mori, con compiaciuta pedanteria, spiega che ovviamente "se io salto addosso a due o tre mafiosi, provoco un danno molto modesto perchè la mafia è una struttura organizzata complessa". Grazie, che la mafia sia una struttura organizzata complessa lo sapevamo già. Il problema non è se salti addosso o meno a due o tre picciotti. Il problema è se non salti addosso al capo dei capi quando ce l'hai sotto tiro e sai dove si nasconde. Porro, invece di farglielo notare, preferisce fare il finto (?) tonto: "Quindi se incontra un ladro lo arresta, mentre se incontra un mafioso non è detto che lo arresta?". Che scoperta stupefacente. Chiamasi strategia investigativa. Mori, ovviamente confortato da tanta arrendevolezza, maramaldeggia: "Certo! Se incontro un mafioso o un terrorista, e sono sicuro che è un mafioso o un terrorista, per me quella è la gallina dalle uova d'oro". È a questo punto che Porro, di fronte a cotanta incredibile e inarrivabile argomentazione, non trova niente di meglio che irrigidire i muscoli facciali in un' espressione di sorpresa inebetita, prima di lasciarsi scappare uno sconfortato e significativo "Ma?...", seguito da un silenzio gravido di nulla. Mori, dal canto suo, autocompiacendosi come un professorino che ha appena rivelato una banalità al suo alunno più ottuso, lo incalza con un "Ha capito?". La risposta è ovvia. No, non ha capito. L'espressione inebetita è ancora visibilmente stampata sul volto del giornalista. Il siparietto è ormai francamente imbarazzante e viene fortunatamente sbrogliato da un finto applauso teleguidato. Il pubblico segue battendo le mani. Mori sorride beato.
 

QUANDO PORRO SI ARRABBIA 

Finalmente, Porro smette i panni decisamente grotteschi dell'alunno tonto e con espressione semi seria dice di voler capire meglio. Lo fa con un paragone incalzante: "È mai successo che Dalla Chiesa abbia incontrato un terrorista e non l'abbia arrestato?". Risposta di Mori: "Certo!". È a questo punto che Porro cerca di dissimulare - con risultati patetici per altro - un attacco d'ira a seguito di tanta impudenza. Gesticola con le mani, alza la voce (ma per finta): "Lei ha mai incontrato un terrorista e non l'ha arrestato, scusi?". La pantomima è concordata con precisione, in modo tale da dare a Mori un assist facile facile per la controreplica. E infatti Mori non si scompone (e perchè dovrebbe?) e anzi si dilunga in una nuova tediosa lezione sulla distinzione tra terroristi latitanti o meno: "Se incontro il terrorista non latitante, io lo seguo. Se invece incontro il latitante, io vado dal magistrato, come ho fatto molte volte nella vita mia, e gli dico: Senta, questo è tizio e caio, latitante, l'abbiamo accompagnato a casa ieri sera, stiamo osservando la sua casa, che facciamo?, lo arrestiamo domani mattina e finisce tutto perchè è l'unico che conosciamo o vediamo di pedinarlo cosí ne incontriamo tre o quattro?".  

 

SE INCONTRO UN LATITANTE IO VADO DAL MAGISTRATO

E qui arriva la prima balla di Mori. "Come ho fatto molte volte nella vita mia". Purtroppo non l'ha fatto nella volta più importante della sua vita. Quando poteva mettere fine alla latitanza di Bernardo Provenzano undici anni prima del suo effettivo arresto. E si guardò bene dall'informare i magistrati della presenza di Provenzano in un casolare di Mezzojuso. E soprattutto si guardò bene dall'intervenire, lasciando che il boss si dileguasse per altri undici lunghissimi anni, in base a non ben precisate strategie investigative. Cosí come si "dimenticò" di comunicare alla Procura di Palermo di aver sospeso completamente l'attività di osservazione del covo di Riina in via Bernini 54, subito dopo l'arresto del 15 gennaio '93, in base a una non ben precisata "autonomia investigativa". Riina prima, Provenzano poi. Due su due. Ma forse qui Mori si riferiva a tutte le altre volte. Escluse appunto la mancata perquisizione del covo di Riina e la mancata cattura di Provenzano. Bazzecole, appunto. Porro avrebbe praterie aperte per contrattaccare e chiedere conto di questi fatti incresciosi. Ma sarebbe troppo. Lascia che sia Mori a scegliere di cosa parlare: "Mi racconti un caso". Tema libero. Mori  sospira profondamente, recita bene, corruga la fronte, stringe gli occhi come per scavare nella sua memoria, poi incomincia il suo racconto. Ovviamente già preparato. "Maggio. 1980. Roma. Contrasto alle BR..." E via con uno stucchevole aneddoto sul contrasto a un gruppo di brigatisti, che niente ha a che fare con gli argomenti scottanti per cui Mori è stato messo alla sbarra. E una buona parte dell'intervista se ne è già andata. Parte il secondo applauso teleguidato. Mori annuisce compiaciuto.  

 

LA COSA CI LASCIA INDIFFERENTI

Finalmente, poi si inizia a fare sul serio. "Le spiego come siamo arrivati alla casa di Riina". Ecco. Qui bisogna seguirlo passo passo, il generale. E non perdersi niente. Nessun sospiro, nessuna pausa, nessuna espressione del volto. Perchè ogni dettaglio potrebbe indicare una chiave di interpretazione per uno degli episodi più controversi della storia dell'Antimafia. Ascoltiamolo: "Noi abbiamo incominciato a seguire alcuni personaggi che ritenevamo vicini a Riina. Attraverso una fonte che aveva un nostro Maresciallo, il maresciallo Lombardo che poi si è suicidato, sappiamo che Riina aveva una particolare famiglia mafiosa di Palermo nel cuore. Il capo di questa famiglia era un certo Ganci. Noi abbiamo incominciato a seguire Ganci e i suoi tre figli. Erano notoriamente mafiosi. Ogni giorno facevamo un resoconto e vedevamo chi incontravano. Un giorno uno dei figli arriva in via Bernini e sparisce in un comprensorio. La cosa ci lascia indifferenti". Fermiamoci. C'è un piccolo particolare che non torna. Un dettaglio quasi insignificante, che potrebbe anche essere addebitato al dovere di semplificazione richiesto da una intervista televisiva, ma che forse è meglio non trascurare. Mori sta parlando della giornata del 7 ottobre 1992. Un gruppo di Carabinieri del ROS pedina il Ganci fino a casa sua, dove il mafioso si dilegua, probabilmente dopo essere entrato in un garage privato. Il dettaglio che non torna è che il Ganci non sparisce nel comprensorio di via Bernini, come dice Mori, bensí  in via Giorgione, che è una piccola parallela di via Bernini, ma separata dal comprensorio da una una doppia serie di palazzi alti una decina di piani. Molto vicino, certo. Ma non esattamente nel comprensorio dove si nascondeva Riina. Teniamolo a mente e proseguiamo. "Dopo 3 mesi  Baldassarre Di Maggio si pente a Torino e indica nei costruttori Sansone, due imprenditori, i favoreggiatori stretti di Riina". Mori si riferisce qui alla notte dell'8 gennaio 1993. Solo sette giorni prima della clamorosa cattura del boss. Di Maggio, residente a Borgomanero, vicino a Novara, viene tratto in arresto e portato in caserma. È molto nervoso, probabilmente teme per la sua vita. Chiede di parlare con la persona più alta in grado. Alle 2 di notte, di fronte al generale Delfino, Di Maggio racconta di avere informazioni che potrebbero aiutare le forze dell'ordine a catturare Riina. Fa diversi nomi, tra cui quelli dei Ganci e dei costruttori Sansone, ma soprattutto indica una serie di luoghi a Palermo dove cinque anni prima ha visto aggirarsi Riina. Ma nessuno di essi coincide con il comprensorio ai numeri 52-54 di via Bernini. Teniamolo a mente e proseguiamo.
 

DI MAGGIO NEL FURGONE

Continua Mori: "Andiamo a vedere le nostre carte e i Sansone avevano due palazzine nel comprensorio di via Bernini". Falso anche questo. I Sansone erano infatti proprietari di alcuni uffici nel condominio di via Cimabue 41. Via Cimabue e' una traversa di via Bernini e il retro delle palazzine al numero civico 41 danno su via Giorgione, proprio dove tre mesi prima i carabinieri del ROS avevano visto dileguarsi il Ganci. Forse che il Ganci all'epoca stava proprio recandosi negli uffici dei Sansone? Non solo. Di Maggio aveva individuato anche un altro stabile, questo si' situato in via Bernini, ma 400m piu' avanti sulla sinistra rispetto al comprensorio dove si nascondeva Riina. Anche in questo stabile risiedevano gli uffici di alcune societa' riconducibili ai Sansone. Tutti luoghi molto vicini al famigerato covo, ma tutti comunque distanti un qualche centinaio di metri. Com'e' che allora l'attenzione del ROS si concentra sul comprensorio ai civici 52-54 di via Bernini, sebbene Di Maggio non lo avesse mai indicato come possibile nascondiglio e sebbene nessun mafioso fosse stato avvistato all'interno? Quello che Mori non racconta, ma che risulta dalla sentenza e' che da un'attenta analisi anagrafica, i Carabinieri riescono a scoprire che esiste un'utenza telefonica intestata ai Sansone proprio all'interno del comprensorio ai numeri civici 52-54 di via Bernini con tanto di nome scritto sui citofoni, anche se quello non è il loro domicilio ufficiale. Questa "stranezza" e' l'unico motivo per cui il capitano Ultimo decide di abbandonare ogni altra pista investigativa offerta da Di Maggio e di puntare tutto sul comprensorio ai numeri civici 52-54. Esattamente dove si nasconde Riina. Quasi a colpo sicuro. "A quel punto mettiamo sotto controllo il comprensorio attraverso un furgone che controlla l'unico ingresso. Prendiamo Baldassarre Di Maggio e lo mettiamo dentro il furgone". È a questo punto che l'intervista tocca apici di comicità, con un Porro fino a quel momento rimasto in compunta contemplazione del racconto del generale, che terrorizzato dai rischi che Di Maggio potrebbe correre chiuso nel furgone, sobbalza sulla sedia e balbettando come un Don Abbondio qualunque recita: "Ne-nel furgone a..a.. Palermo???". Mori, con sorriso beffardo, conferma: "Certamente!". A questo punto vien voglia di entrare nel televisore e rassicurare Porro con una carezza e fargli sapere che poi è andato tutto bene e che tutto ciò è accaduto vent'anni fa e che Di Maggio alla fine ne è uscito indenne da quel furgone. Anche perchè Di Maggio, il primo giorno di osservazioni, in quel furgone, non ci è mai entrato. Altra imprecisione piuttosto grossolana di Mori. Il giorno 14 gennaio 1993, infatti, nascosto nel furgone con le telecamere puntate sui cancelli al civico 54 di via Bernini, non c'era Di Maggio bensí l'appuntato Coldesina.
 

AVEVAMO GIÀ IPOTIZZATO COME FARE  

E infatti Mori precisa: "La sera portiamo a Di Maggio tutti i filmati che abbiamo fatto. Lui riconosce Ninetta Bagarella, che è la moglie di Riina, e uno dei figli di Riina. Ergo, non è che c'era Riina lí, ma sicuramente era un punto di riferimento per lui". Se dunque Di Maggio riconosce la moglie e il figlio di Riina solo dopo aver visto i filmati in caserma la notte del 14 gennaio, è solo perchè lui nel furgone quel giorno con l'appuntato Coldesina non ci è mai stato. Ed è proprio per quel prezioso riconoscimento somatico che il Capitano Ultimo decide a quel punto che dentro il furgone, la mattina seguente, ci debba essere anche Di Maggio. Seguiamo il racconto: "L'indomani mattina alle 6 il furgone era lí con dentro Baldassarre Di Maggio. Arriva una macchina che entra e Di Maggio fa: Quello lí è Biondolillo. Si sbaglia: è Biondino. Comunque, buona notizia, perchè sapevamo che era un mafioso. Esce una macchina dopo mezz'ora e a fianco di Biondolillo (Biondino, n.d.a.) c'era Riina".
Sorvolando sul fatto che l'auto con il Biondino esca dal comprensorio solo tre minuti dopo esserci entrata (dalle 8:52 alle 8:55) e non dopo mezz'ora come dice Mori, arriviamo al momento cruciale dell'intervista: la modalità di cattura del boss corleonese. Ascoltiamo bene: "A quel punto avevamo già ipotizzato come fare. Abbiamo applicato sempre il nostro sistema. Se lo prendevamo lí si scopriva tutta la nostra attività. Se lo prendevamo mentre usciva, si scopriva tutto". Ecco spiegato il motivo di tutta quella noiosissima introduzione sul fatto che non sempre è utile saltare addosso all'istante ad un mafioso. Ecco spiegati pure tutti quei racconti sul metodo rischioso di contrasto alle BR. Ecco spiegata anche tutta la sceneggiata di Porro che si fingeva stupito se non addirittura offeso all'idea di ritardare l'arresto di un latitante. Era tutto un modo per arrivare a far credere che il Capitano Ultimo avesse già deciso a tavolino, secondo una tecnica collaudata, di non saltare subito addosso a Riina appena uscito dalla sua abitazione. No, no. Avrebbe aspettato invece di essere ben distante, per far credere ai mafiosi che loro non sapevano nulla del covo di via Bernini. L'arresto avrebbe dovuto apparire frutto del caso. In modo da poter proseguire poi gli appostamenti senza che i mafiosi sospettassero nulla. Bella storiella, ma che purtroppo non sta in piedi. Storiella a cui Porro, però, crede con tutte le sue forze, tanto da intervenire preoccupato: "E rischiate di non prenderlo mentre esce???". Ancora una volta verrebbe voglia di rassicurare Porro sul fatto che Riina poi alla fine l'arrestarono davvero e che andò tutto bene e che per nostra e sua fortuna è ancora al 41bis. Ma non lasciamoci distrarre da Porro. Seguiamo Mori.
Attenzione. Mori qui è pienamente cosciente di stare per dire una falsità. Intendiamoci: è una falsità assolutamente necessaria nella ricostruzione meticolosa del puzzle autoassolutorio. Se viene svelata questa falsità, si disintegra tutto il puzzle. E allora Mori si inceppa. Non gli vengono le parole. Farfuglia frasi velocissime e quasi incomprensibili. "L'abbiamo pedinato fino...[fa finta di fare mente locale al percorso fatto dalle automobili].... 2km... [biascica qualcosa di incomprensibile]... quando siamo stati sicuri che era fuori del... del nostro...de...del...del... [interviene Porro in soccorso: sí, sí, di questo comprensorio!]...di questo cmprnsr...lo abbiamo preso". A parte l'improvvisa afasia, un concetto è chiaro: il Capitano Ultimo ha aspettato di essere ad una distanza di almeno 2 km dal covo prima di arrestare Riina. Niente di più falso. Il maresciallo Calvi, che quel giorno era in macchina con il Capitano Ultimo, racconta che l'arresto avvenne mentre l'auto dove viaggiava Riina "si approssimava alla rotonda del Motel Agip". La rotonda del Motel Agip è in realtà meglio nota come piazza Einstein e si trova a 400-500m dal civico 54 di via Bernini. Appena svoltato l'angolo. È bene ribadirlo: appena svoltato l'angolo.
La scena dunque è chiarissima. Riina esca in macchina. Al suo fianco, come autista, Biondino. L'auto si dirige verso il fondo di via Bernini. Di Maggio, nascosto nel furgone, riconosce immediatamente il boss. Il capitano Ultimo, appostato nei pressi, viene informato via radio che quella Citroen che si sta allontanando contiene Salvatore Riina. Il Capitano Ultimo non ci pensa un attimo e si mette all'inseguimento della Citroen, che è appena arrivata all'incrocio con viale Regione Siciliana e ha svoltato a destra. Le due auto saranno a non più di un centinaio di metri di distanza. Per poter catturare Riina è necessario però avvicinarsi maggiormente e soprattutto aspettare che si fermi, magari ad un semaforo. Non ce n'è bisogno. Il traffico delle 9 del mattino a Palermo fa il resto. La Citroen dove viaggia Riina deve rallentare e fermarsi, bloccata dalle auto in colonna, prima di imboccare la rotonda del Motel Agip. Siamo a 500m di distanza dal covo appena abbandonato. È l'occasione propizia. L'auto dove viaggia il Capitano Ultimo supera e blocca il passaggio alla Citroen. Scendono i carabinieri con le teste incappucciate e i mitra spianati. Riina non oppone resistenza. E allora da dove tira fuori Mori quel dato di 2km di distanza? In realtà la cosa è molto sottile e deriva da un chiaro errore presente nella sentenza di assoluzione dove i giudici scrivono che l'arresto avvenne presso piazza Kennedy, a circa 800m di distanza dal covo. In realtà piazza Kennedy non si trova a 800m dal covo, bensí a un paio di chilometri. E soprattutto, piazza Kennedy non è la rotonda del Motel Agip. L'errore però viene sfruttato sapientemente da Mori che in questo modo può parlare dei famosi 2km di distanza. Dunque non ci fu nessuna strategia premeditata per far apparire l'arresto come casuale. Non avevano ipotizzato nulla, come invece racconta Mori. Il Capitano Ultimo saltò addosso a Riina nella prima occasione utile, come era necessario fare per non rischiare di perderlo nel traffico, senza preoccuparsi minimamente di poter in questo modo "bruciare" il covo. Ma perchè allora Mori si ostina a raccontare qualcosa che evidentemente non sta in piedi? Beh, perchè questo piccolo dettaglio della distanza tra il covo e il luogo materiale dell'arresto è fondamentale per poter giustificare tutto il resto della storia. E Mori sa bene che se si rompe un pezzetto, rischia poi di sbriciolarsi tutto il puzzle.
 

NEL COVO NON C'ERA NULLA

E il resto della storia è tristemente noto. I Carabinieri del ROS si oppongono con forza alla Procura di Palermo che spinge per un'irruzione immediata nel covo e ottengono di poter rimandare la perquisizione di 48 ore, a patto di mantenere però un controllo attento sull'area. In realtà, il servizio di osservazione viene disattivato il pomeriggio stesso (e il furgone rimosso) e in via Bernini i Carabinieri non ci ritorneranno mai più, senza per altro avvisare la Procura di tali decisioni assunte in completa autonomia. Come è possibile spiegare un atteggiamento del genere? Non si può. Ma Mori, con grande sprezzo del ridicolo - bisogna riconoscerlo - riesce a rimanere serio quando afferma con convinzione: "La proposta che fece immediatamente il capitano Ultimo e che io avallai e sostenni era questa: Riina dentro casa non c'ha nulla, perchè non rischia una perquisizione che arriva lì." Fantastico. Il Capitano Ultimo d'accordo con il generale Mori decidono che la perquisizione è inutile perchè sicuramente Riina non tiene alcun documento con sè a portata di mano. Nemmeno un pizzino. Ne sono certi. E piuttosto che correre il rischio di fare irruzione e poi trovarci dentro davvero qualcosa di importante, preferiscono lasciar perdere e non provarci nemmeno. Tanto non c'è niente. A questo punto, l'inquadratura passa sul volto di Porro che ascolta la storiella con tanto di boccuccia aperta a mo' di pesce rosso. Poi ha un sussulto, si risveglia e ricostruisce in breve l'accusa della Procura di Palermo che contestò al generale il favoreggiamento aggravato per la mancata perquisizione. Mori si inalbera e ribadisce: "No! No! No! Lì non c'era nulla! Noi avevamo un sacco di elementi. Avevamo la casa di Riina e i figli. Avevamo l'autista che accompagnava e portava in giro la moglie di Riina. Avevamo i due imprenditori Sansone e avevamo i Ganci. Avevamo un sacco di elementi per andare avanti. Si trattava di far passare un attimo la bufera dell'arresto e poi proseguire su questa gente qua. Cioè la solita tecnica..." La solita tecnica. Ovvero, la strategia era evitare di bruciare il covo con una perquisizione in modo da poter continuare le indagini sui Sansone e i famigliari di Riina. Tanto i mafiosi mica avevano capito che i Carabinieri avevano individuato il covo. Dopo tutto l'arresto era avvenuto addirittura a 500m di distanza. Peccato che poi la perquisizione la fecero i mafiosi stessi che nel giro di pochi giorni fecero sparire ogni minima prova, spazzolando la casa, accatastando i mobili e rimbiancando persino le pareti. E peccato che i famigliari di Riina il giorno seguente avevano già abbandonato il covo ed erano già al sicuro a Corleone. E peccato infine che le indagini sui Sansone, a cui a quanto pare i Carabinieri del ROS tenevano così tanto, non saranno mai fatte e nemmeno mai iniziate.
 

QUESTO ME LO CHIEDO ANCH'IO 

È solo a questo punto, quando ormai il tempo a disposizione per l'intervista sta terminando, che Porro propone la prima domanda pertinente: "Ma lei ne aveva parlato con un magistrato?" Risposta: "Sí!" "E chi era quel magistrato?" Risposta: "Quel giorno si insediava Caselli". "Quindi Caselli sapeva che vi era una strategia nel non proseguire?" Risposta: "Si!" Tutto falso. E c'è un documento ufficiale che è lì a dimostrarlo in maniera incontrovertibile. Se non altro perchè a redigerlo fu lo stesso generale Mori che il 18 febbraio 1993, un mese dopo l'arresto, scrive di suo pugno una nota indirizzata alla Procura di Palermo, che aveva chiesto spiegazioni sulla mancata perquisizione del covo, ammettendo che in effetti vi fu la "mancata, esplicita comunicazione all'Autorità Giudiziaria competente della sospensione dei servizi di sorveglianza su via Bernini". Lo dice Mori. Nel 1993. E per giustificarsi scrive che "chi ha operato ha sicuramente inteso di potersi muovere in uno spazio di autonomia decisionale consentito". Falso. Alla luce della disciplina ex art. 55 e 348 c.p.p. delle attività di polizia giudiziaria, che Mori e il ROS ovviamente conoscevano fin troppo bene, non è consentito alle forze dell'ordine assumere iniziative che siano in contrasto con le indicazioni date dall'Autorità Giudiziaria. E le indicazioni erano state chiare: perquisizione entro non più di 48 ore con osservazione continuata e attenta dei luoghi. Nulla di tutto ciò avvenne. E incredibilmente nessuno si preoccupò di avvisare i magistrati. Ma tutto questo, Porro non lo sa. E se ne sta li' a bersi la storiella. La verita' sfuma. Il puzzle autoassolutorio ne esce rafforzato.

 

LA SENTENZA DICE CHE

Quindi quando Mori risponde che sì, lui Caselli l'aveva avvisato, e che sì, Caselli era al corrente che non si sarebbe proseguito con l'attività di osservazione, sta dicendo palesemente il falso. E forse ci vorrebbe pure che Caselli non lasciasse passare il tutto come se niente fosse e facesse sentire la sua voce. Ne va della credibilità di un'intera procura, che ha passato in trincea anni durissimi a Palermo tra i mafiosi e che si ritrova ora sbeffeggiata in prima serata in un programma di Nicola Porro. Il quale lascia che le falsità di Mori si ingigantiscano: "Allora perchè è stato indagato dalla stessa procura di Caselli, se lei ha detto a Caselli: non perquisisco così ho più prove?" Risposta pregnante del generale: "Mah, questo me lo chiedo anch'io". Porro, apparentemente soddisfatto da tanto argomentare, vuole la conferma: "Cioè Caselli le ha dato il via libera a non perquisire quella casa?" Risposta: "A sospendere la perquisizione". Sí. Peccato che Mori non specifichi che la sospensione fu limitata alle 48 ore e non ad libitum. E in ogni caso, a tagliare la testa al toro ci sono le parole incontrovertibili dei giudici che nella sentenza di assoluzione scrivono che "appare indubitabile che la decisione assunta dal cap. De Caprio era incompatibile con la direttiva di proseguire il controllo - prescindendo se fosse da intendersi come video sorveglianza o come osservazione diretta od anche come semplice pattugliamento a mezzo di auto civetta della zona - impartita dall’Autorità Giudiziaria. Il sito, come già detto, fu abbandonato e nessuna comunicazione ne venne data agli inquirenti". Punto. Non c'è molto da aggiungere. Se Mori si desse la briga di leggere almeno la sentenza che l'ha mandato assolto, troverebbe le risposte a molte delle sue domande. Ma quella sentenza, Mori in realtà la conosce fin troppo bene e la sa utilizzare in modo spericolato a proprio uso e consumo. Come quando precisa: "La sentenza che mi manda assolto assieme al Capitano Ultimo dice che è stata la Procura ad autorizzare la sospensione della perquisizione assumendosi il rischio dell'operazione". Qui Mori tocca l'apice della disonesta' intellettuale riuscendo a far dire ad una sentenza il contrario di ciò che in realtà dice. Mori infatti si dimentica di riportarla per intero la frase contenuta nella sentenza, che invece recita: "la Procura scelse di aderire alle richieste avanzate dal ROS e di assumere il rischio di ritardare la perquisizione, convenendo di aspettare non oltre le 48 ore."  Convenendo di aspettare non oltre le 48 ore. Leggera differenza. Che Mori ovviamente si guarda bene dal riferire. E per corroborare la sua tesi, sottolinea che la Procura sapeva benissimo che "dilazionando di un giorno o di venti giorni la perquisizione, il rischio di perdere delle prove, se c'erano, era lo stesso." Ragionamento assurdo, che fa a pugni con la logica e con la statistica. Se intervieni dopo un giorno, forse non sono riusciti a far sparire tutte le prove, ma se intervieni dopo venti giorni ti rimbiancano pure le pareti. Come poi effettivamente successe.

 
DOLO O NON DOLO? 

Porro a questo punto prende una pausa e manda in onda un video di un'intervista ad Ingroia ("Niente di Personale", puntata del 6 marzo 2011) in cui l'ex magistrato sottolinea che l'assoluzione di Mori e De Caprio nel processo sulla mancata perquisizione del covo di Riina è avvenuta perchè il fatto non costituisce reato e non perchè il fatto non sussiste. Differenza fondamentale. E il favoreggiamento, commesso, non costituisce reato per il semplice fatto che i giudici non hanno ravvisato il dolo, bensí la semplice negligenza. Porro glielo fa notare e Mori riesce a mentire ancora una volta con un'acrobazia logica: "Il favoreggiamento non è stato provato perchè il Tribunale ha affermato che è stata la Procura a autorizzarci a rimandare la perquisizione". Falso due volte. E siccome Mori ripete questa balla macroscopica, noi ripetiamo la verità: "la Procura scelse di aderire alle richieste avanzate dal ROS e di assumere il rischio di ritardare la perquisizione, convenendo di aspettare non oltre le 48 ore". E in ogni caso non è questo il punto. Il favoreggiamento è stato provato eccome, perchè, come sta scritto chiaramente nella sentenza, il covo di Riina "fu abbandonato e nessuna comunicazione ne venne data agli inquirenti. Questo elemento, tuttavia, se certamente idoneo all’insorgere di una responsabilità disciplinare, perché riferibile ad una erronea valutazione dei propri spazi di intervento, appare equivoco ai fini dell’affermazione di una penale responsabilità degli imputati per il reato contestato". Cioe' il favoreggiamento è un dato oggettivo, ma non è penalmente rilevante, perchè secondo i giudici il ROS non l'ha fatto apposta, ma ha semplicemente sbagliato nelle strategie investigative. Non comunque una medaglia al merito, diciamo. E via poi con un pistolotto di Mori che spiega come ci fu un evidente accanimento giudiziario nei suoi confronti, dovuto a invidie e ripicche della procura, perchè loro invece hanno continuato a comportarsi come investigatori che, nell'ambito delle proprie competenze, rivendicavano la loro indipendenza. Tutta colpa della riforma del codice del 1989 che dava troppi poteri al magistrato inquirente. Purtroppo per Mori, il problema non è il codice. Il problema è chi non lo rispetta, il codice. E se rivendicare la propria indipendenza investigativa significa violare il codice facendo esattamente l'opposto di ciò che l'Autorità Giudiziaria ha disposto, beh poi non bisogna stupirsi che magari la stessa Autorità Giudiziaria ti chiami a rispondere del tuo operato. Ma questo, Mori lo sa fin troppo bene.

 
OGNUNO HA LE SUE IDEE

L'ultima parte dell'intervista prende una piega decisamente grottesca. Porro butta lì una domanda furbina: "Lei ci sarebbe andato come ufficiale di PG per un'indagine a prendere un caffè con un mafioso per avere delle informazioni  o per capire e carpire dei segreti?" E Mori coglie al volo l'assist: "Ma questo era il sistema ante 1989! Sono state le disgrazie di Contrada!" Ecco. Anche le vicende processuali di Contrada, come quelle di Mori, hanno un solo colpevole: la riforma del codice del 1989. Non i reati commessi. No. La riforma del codice. Tesi alquanto strampalata, soprattutto se proviene dalla bocca di un alto ufficiale. Porro incalza: "Contrada si merita il carcere?" Mori ci pensa un po' e poi spara: "Per me no!". Per lui no. Siamo contenti di saperlo. Peccato che per quattro collegi giudicanti (un primo grado, un appello e due cassazioni) sì: Contrada il carcere se lo merita eccome, per un reato tra l'altro gravissimo per un appartenente alle Forze dell'Ordine, quello di concorso esterno in associazione mafiosa. Un reato che Mori ha passato una vita intera a contrastare. E infatti si spaventa di quello che ha appena detto e precisa: "Ma è una valutazione personale". Che non è proprio un argomentare ad alti livelli. Silenzio inquietante in studio. Porro lo osserva con un sorrisino inebetito. Passano i secondi. Mori, visibilmente imbarazzato, tira su col naso e abbozza un'improbabile difesa: "Ognuno ha le sue idee. E io sostengo le mie." Purtroppo non è questione di idee, generale. Ci sono stati tre gradi di giudizio con un appello rifatto che condannano inequivocabilmente Contrada a 10 anni di carcere per reati gravissimi. Ci hanno pure provato i suoi avvocati a chiedere più volte la revisione del processo. La cassazione si è sempre pronunciata contraria. Non si tratta di opinioni, generale. Non stiamo parlando di politica. Stiamo parlando di reati accertati. Ma questo, Mori lo sa fin troppo bene.
 

IO NON È CHE ME NE INTENDA MOLTO

Nei suoi minuti finali poi, l'intervista vira dal grottesco al ridicolo. Porro butta lì la solita domanda, tormentone caro a tutti i noti frequentatori e favoreggiatori di mafiosi: "Il concorso esterno in associazione mafiosa per lei è un reato che ha un senso?" E qui ci si aspetterebbe che da un eroe integerrimo dell'Antimafia qual è Mori salga un sussulto di sdegno per un'affermazione completamente irricevibile. Ci si aspetterebbe che Mori a voce alta dica chiaramente che il concorso esterno in associazione mafiosa è un reato limpido e utilissimo, codificato proprio grazie all'opera di Falcone e Borsellino, che mira a sottrarre alla mafia quell'humus della complicità istituzionale da cui essa trae forza e nutrimento. E infatti Mori replica con forza: "Mah. Sa. Io non è che me ne intenda molto." Non se ne intende molto. L'uomo che ha passato la sua vita a caccia di mafiosi e fiancheggiatori di mafiosi, non se ne intende molto del reato di concorso esterno. Parole che lasciano di sasso. E come se non bastasse continua: "Io non riesco a capire proprio fino in fondo la differenza tra il concorso esterno e il favoreggiamento." Ecco. Pur di non rispondere, preferisce apparire completamente incompetente sulla materia. E sì che ne dovrebbe sapere qualcosa, visto che ha subito ben due processi per favoreggiamento. La distinzione in realtà è molto semplice. Il favoreggiamento si ha nella misura in cui ci si limiti a depistare delle indagini di polizia giudiziaria volte alla cattura di mafiosi. Il concorso esterno implica invece un coinvolgimento attivo nella realizzazione del programma criminale mafioso. Il favoreggiamento, pur restando un reato odioso, è decisamente meno grave del concorso esterno. Ma anche questo, Mori la sa fin troppo bene. Ma gli fa molto comodo fare la parte del perseguitato incompetente. Porro sembra non cogliere e, per non sbagliare, passa ad altre domande pescate un po' a casaccio. Servono ancora i Servizi Segreti? Cosa ne pensa del caso Shalabayeva?

 

MINCHIA, MI FUTTIRONO

Già scorrono i titoli di coda, ma l'intervista regala ancora un siparietto degno di nota. Altro affondo inutile di Porro: "Qual è l'arresto che le ha dato più soddisfazione?" Mori, forse indignato dall'insipienza di una domanda del genere, sfodera una smorfia schifata, come se a lui arrestare mafiosi poi in fondo non è che gli desse quella gran soddisfazione. E infatti alla fine tira fuori la vicenda dell'arresto di Bonomo, latitante in Costa D'Avorio, quando ormai Mori aveva lasciato il ROS per diventare il capo dei Servizi Segreti. La storiella rocambolesca dell'arresto non riesce a spiegare perchè gli abbia dato tanta soddisfazione, ma in compenso dà al generale l'opportunità di chiudere l'intervista con una battuta in dialetto siciliano, pronunciata dal latitante al momento dell'arresto: "Minchia, mi futtirono!". Risate liberatorie in studio con tanto di immancabile applauso teleguidato. Non gli è nemmeno passato per la mente che il miglior arresto fatto nella sua carriera potesse essere quello del Capo dei Capi di Cosa Nostra, Totò Riina. Se non altro per la soddisfazione di aver vendicato il massacratore dei suoi eroi, Giovanni Falcone e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Invece no. Gli ha preferito un tal Bonomo, latitante in Costa d'Avorio. E se lo dice lui, che Riina l'ha arrestato, forse un motivo ci sarà.

 

Federico Elmetti






Trasmissione RAI 'Virus' : Mario Mori - l'intervista di Nicola Porro (04/09/2013)











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Federico   |2005-04-14 07:37:29
Noto con piacere che, di tutto l'articolo, il signor Tagliaferro, noto difensore
d'ufficio del ROS, non e' riuscito a confutare una singola parola. Significa che
il pezzo ha colpito nel segno. Preciso solo due cose:

1) da Google Map: via
Bernini 54 - imbocco rotonda di Piazza Einstein (ex Motel Agip) = 400m = 1
minuto = appena svoltato l'angolo

2) La strategia di Ultimo NON ha funzionato
per due semplici motivi.
Primo: la mattina seguente l'arresto, via Bernini era
gia' invasa da una marea di giornalisti in cerca del famigerato covo. Lo
sapevano gia' tutti. Figurarsi se non lo sapevano i mafiosi.
Secondo: Ultimo non
aveva nessuna strategia, se non quella di catturare Riina nel primo momento
utile. Ed e' quello che ha giustamente fatto, nel migliore dei modi e senza
rischiare di perdere Riina nel traffico (sarebbe stata pura follia), mettendo a
segno una grande operazione antimafia sul campo.

Per il resto confermo tutto
quanto nell'articolo.

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