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Capaci, ecco il commando che fece saltare Falcone PDF Stampa E-mail
Documenti - I mandanti occulti
Scritto da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza   
Mercoledì 17 Aprile 2013 22:39
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza - 17 aprile 2013

La novità sta tutta nel racconto del pentito Gaspare Spatuzza che, dopo aver riscritto da capo la strage di via D’Amelio, assieme all’altro pentito Fabio Tranchina ricostruisce nei dettagli la preparazione del botto di Capaci, attribuendo, anche stavolta, un ruolo centrale alla famiglia mafiosa di Brancaccio. E così, a 21 anni dall’uccisione di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, la Procura di Caltanissetta guidata da Sergio Lari ha individuato il pezzo mancante del commando stragista, quel gruppo di fedelissimi del boss Giuseppe Graviano che si occupò di procurare e preparare l’esplosivo dell’“attentatuni”: si tratta di Giuseppe Barranca, Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello.   
CON LORO c’è anche Cosimo D’Amato, il pescatore che consegnò ai killer l’esplosivo recuperato da residuati bellici trovati in mare. Per individuare il “Cosimo” di Porticello, indicato da Spatuzza, gli uomini della Dia, come ha detto il direttore Arturo De Felice, hanno passato al setaccio oltre 7mila nomi dell’anagrafe della borgata marinara. E, infine, c’è Salvino Madonia, boss di Resuttana, annoverato – sia pure tardivamente – tra i mandanti della strage, per la sua partecipazione alla riunione della Cupola che alla fine del ’91 deliberò la strategia di attacco allo Stato. Nei loro confronti, il gip nisseno Francesco Lauricella ha firmato una nuova ordinanza di custodia cautelare per concorso in strage, con l’aggravante delle finalità terroristiche, che accoglie in pieno la richiesta dell’aggiunto Nico Gozzo e dei pm Onelio Dodero e Stefano Luciani. Tutti gli imputati per l’eccidio di Capaci sono già da tempo in
carcere, compreso il pescatore D’Amato finito in cella nel novembre scorso per le bombe a Firenze, Roma e Milano.
Il quadro degli esecutori ora è completo, ma nell’indagine non c’è traccia di mandanti esterni. Lo ha confermato lo stesso Lari, dicendo che “non emerge fino a questo momento la partecipazione alla strage di Capaci di soggetti esterni a Cosa nostra”. E che “la mafia non prende ordini da nessuno”. Non la pensano così Rita Borsellino e Maria Falcone, che pur complimentandosi per l’esito dell’inchiesta, si augurano che “la stessa ricostruzione si possa fare per il livello politico-istituzionale che sta dietro la strage”. Per i pm nisseni, insomma, resta solo un’ipotesi senza prove l’intreccio tra mafia, massoneria, eversione nera e servizi deviati, responsabile di aver orientato lo stragismo ’92-’93, che non più di un mese fa il gup Piergiorgio Morosini ha rilanciato nel suo decreto di rinvio a giudizio sulla trattativa mafia-Stato, citando la presenza di Pietro Rampulla, ex ordinovista, nel commando di Capaci. E senza risposte restano anche i dubbi sollevati in questi giorni da un volume (Doppio Livello di Stefania Limiti) che si interroga proprio sulla tecnica dell’attentato di Capaci, un unicum nella storia del terrorismo, tanto da far pensare a competenze di tipo militare prestate per l’occasione a Cosa nostra. Ma Lari ieri ha smentito gli indizi citati nel libro, nessun collante “militare” nell’esplosivo e nessun mistero sui guanti di lattice trovati a Capaci: appartenevano ai picciotti del commando, come ha ricostruito chi indagò allora, il questore Arnaldo La Barbera, la cui attendibilità nelle indagini sulle stragi, però, è ancora sub judice dopo il depistaggio di via D’Amelio. Così, con le parole di Spatuzza che indica tra i sicari di Brancaccio chi procurò, preparò e confezionò l’esplosivo per Falcone, utilizzando persino uno scolapasta per filtrarlo, si chiude l’ultima rilettura della strage che fece a pezzi la Prima Repubblica. Ora il pentito dice che il boss Graviano aveva ordinato massima riservatezza sull’esplosivo: 200 chili di tritolo, prelevato dal mare, furono consegnati a Giovanni Brusca.   
DI ALTRI 200 chili, recuperati alla Cala e poi probabilmente utilizzati in via D’Amelio, bisogna ancora stabilire la provenienza. Per sistemare la carica finale, Brusca si avvalse della consulenza di Rampulla, detto l’artificiere. Era proprio lui, neo-fascista vicino al boss catanese Nitto Santapaola e amico di Rosario Cattafi, l’uomo che all’inizio era stato incaricato di premere il telecomando. Ma Rampulla, come racconta Brusca, all’ultimo momento si defilò, adducendo un impegno familiare. E tra la collinetta e l’autostrada di Capaci rimasero solo i manovali di Cosa nostra.


Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (Il fatto Quotidiano, 17 aprile 2013)







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