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Brusca: 'Io a Capaci all’ultimo momento' PDF Stampa E-mail
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Scritto da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza   
Venerdì 15 Febbraio 2013 21:35
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza - 15 febbraio 2013
Il pentito riscrive la strage: “L’artificiere Rampulla ebbe un impedimento e mi passò il telecomando”. Il ruolo di catanesi e “neri”
A Capaci l’artificiere doveva essere Rampulla; doveva essere lui ad azionare il telecomando finale, ma aveva un impegno e non è potuto venire. Ha chiesto se poteva essere libero, e io gli ho detto: Vai che so io quello che devo fare”. A distanza di oltre vent’anni dal “botto” sull’autostrada, il pentito Giovanni Brusca racconta che quel 23 maggio ’92 fu il caso a portarlo sulla collinetta di Capaci con in mano il comando per scatenare l’esplosione che doveva uccidere Falcone. Il killer designato da Cosa nostra per quell’incarico era un altro: Pietro Rampulla, detto “l’artificiere”, ex ordinovista originario di Mistretta (Messina), legato alla destra eversiva, vicino alle cosche di Nitto Santapaola. L’uomo che procurò il telecomando di morte inviandolo a Brusca con il boss Pippo Gullotti, che lo nascose tra due balle di paglia in un camion che trasportava una cavalla a Palermo.

UN UOMO di fiducia dei clan catanesi, insomma, ma soprattutto un attivista “nero”, legato da un’antica amicizia a Rosario Cattafi, l’avvocato di Barcellona, anche lui con un passato tra gli ordinovisti, che da qualche mese si è trasformato in un testimone dell’indagine sul negoziato tra mafia e Stato. La rivelazione di Brusca del 1° febbraio a Rebibbia, poi minimizzata dal pentito nell’udienza dell’altroieri con una “dichiarazione spontanea”, rilancia l’intreccio tra mafia, massoneria, eversione nera e servizi deviati ipotizzato dalla Dia vent’anni fa, come l’allora capo Gianni De Gennaro ha ribadito in aula (tra memorie sbiadite e tanti “non ricordo”) citando proprio Rampulla, personaggio che gli investigatori faticavano a collocare “tra organizzazione criminale e estremismo di destra”.

Non era Brusca, uomo d’onore doc di una famiglia fedelissima di Totò Riina, il numero uno del commando: quel ruolo era stato affidato a un messinese (poi condannato per la strage) col pallino degli esplosivi. Da chi? “Fu Messina Denaro a ingaggiare Rampulla – dice oggi Nicolò Marino, ex pm di Caltanissetta, neoassessore regionale all’Energia del governo Crocetta – perché l’artificiere era un personaggio vicino alla destra eversiva con cui il boss trapanese aveva già operato durante la faida di Alcamo del 1991”. Ora la confessione di Brusca sulla presenza di Rampulla nel commando di Falcone apre nuovi interrogativi sul ruolo dei clan catanesi nel progetto stragi-sta e soprattutto sulla partecipazione di “legionari” dell’estrema destra,esperti in esplosivi e azioni di guerriglia, in quel periodo gravitavano attorno alla cosca di Santapaola. A Catania, infatti, si formava la “peggio gioventù” della destra eversiva: e a misteriosi “killer catanesi” allude il dialogo, intercettato, di Gioè con Gioacchino La Barbera, mafiosi di Altofonte, nel quale il primo esprimeva la propria ammirazione “per i catanesi, tra i quali vi erano 4 o 5 veramente bravi, che colpivano come i fedayn e poi sparivano...”. Di quali omicidi parlava Gioè (poi morto suicida in carcere a Rebibbia) dal momento che in quel periodo nessuna azione delittuosa risulta eseguita da killer catanesi a Palermo? Mistero. Su Matteo Messina Denaro, l’uomo che avrebbe “assoldato” Rampulla, da alcuni mesi indaga a ritmi serrati la procura nissena: “Lo scopo di Riina era la ricerca di nuovi referenti politici – chiarisce l’ex pm Marino – le stragi del ’92-’93 non sono state un’escalation, ma il frutto di un programma stabilito nel ’91, per creare un clima di terrore”. Un clima che secondo la relazione della Dia del 3 agosto ’93 avrebbe avuto tra i suoi obiettivi anche quello, squisitamente politico, di favorire il capovolgimento istituzionale del Paese, al bivio tra Prima e Seconda Repubblica. E non era l’unica certezza già acquisita nel ’93.
IL 13 AGOSTO di quell’anno il Sisde di Palermo trasmetteva alla Direzione di Roma un documento con informazioni su gli equilibri interni a Cosa nostra, dopo l’arresto di Riina. “I mafiosi – si legge nel documento – ormai certi di dover trascorrere il resto della vita scontando pene detentive in un regime carcerario rigido, avrebbero raggiunto la convinzione che solo nel caos istituzionale... sia possibile ricavare nuove possibilità di trattativa, miranti a ottenere sconti di pena nell’ambito di una più vasta pacificazione sociale necessaria all’instaurazione del nuovo ordine istituzionale”. È la clamorosa anticipazione del dialogo aperto tra Stato e mafia.


Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (Tratto da:
Il Fatto Quotidiano)















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