Da certe ricostruzioni giornalistiche sul clima che ha accompagnato la conclusione delle indagini della Procura di Palermo sulle trattative Stato-mafia, parrebbe che dalle parti di quell’ufficio giudiziario stiano nuovamente serpeggiando, nemmeno tanto velatamente, almeno da quanto divulgato dagli organi d’informazione, pericolosi veleni. Sembra il 1992, verrebbe da dire. O, ancor di più, il 1989. Si è appreso che il dr. Paolo Guido, che non avrebbe condiviso, almeno sotto un profilo squisitamente giuridico, le contestazioni da muovere ad alcuni indagati, avrebbe lasciato il “pool” e sarebbe stato sostituito dal dr. Francesco Del Bene. Ma non è questo che mi impensierisce: tutto sommato, le diverse valutazioni giuridiche fra operatori del diritto rientrano – o, almeno, possono rientrare – nella fisiologia. Ciò che realmente mi turba e mi angustia è altra, in qualche modo inedita, circostanza: il procuratore capo Francesco Messineo, attualmente candidato (e favorito, secondo i rumour) in corsa alla prestigiosa poltrona di procuratore generale sempre a Palermo, si è astenuto dall’apporre la propria firma sull’avviso di conclusione delle indagini preliminari notificato agli indagati. La firma di Messineo non è indispensabile ai fini del prosieguo del procedimento ma, al tempo stesso, è ovvio interpretare quello del capo della Procura come un abbandono, l’ennesimo, di quei pubblici ministeri che tanto si stanno esponendo e adoperando per far emergere la difficile verità sul biennio stragista di Cosa Nostra e su quelle trattative (almeno due, secondo gli stessi magistrati), tutti episodi dai quali è scaturita la ormai morente cosiddetta seconda Repubblica. E le sue dichiarazioni di oggi sono una sorta di confessione.
In quest’ultimo caso, il capo della procura palermitana ha scelto volontariamente di prendere le distanze dai suoi sostituti. In altre occasioni, la scelta di astenersi per quel magistrato è stata coartata dalle sue sfortunate parentele (sfortunate almeno in relazione al suo ruolo istituzionale). Nel 2006, infatti, quando fu nominato procuratore capo e suo fratello Mario era imputato a Palermo per truffa aggravata e continuata, Messineo firmò una dichiarazione di astensione per “motivi di opportunità” che portò il fascicolo nelle mani del procuratore di Caltanissetta Sergio Lari. Questa vicenda, peraltro, già piuttosto indifendibile di suo, fece aprire il processo in un clima di imbarazzo, di confusione e di tensione che è difficile dimenticare .
Ma non finì qui. L’odierno aspirante procuratore generale riuscì a mettere in agitazione i corridoi del Palazzo di Giustizia di Palermo anche quando suo cognato (fratello di sua moglie), Sergio Maria Sacco, vicino al clan Lo Piccolo, fu coinvolto in un’inchiesta per un omicidio di mafia. La moglie di Francesco Messineo, Michelina Sacco, fervente sostenitrice (insieme al marito partecipe a cene “a sfondo elettorale”) del neo-sindaco Orlando e firmataria dell’appello pubblicato sui giornali che avrebbe “costretto” il portavoce di IdV alla candidatura, quindi, è parente dei Sacco. Non è un cognome da nulla, per chi conosce la storia di Cosa Nostra. Già, perché – scopro oggi – secondo quanto scrisse il 6 marzo 2009 il sito di Live Sicilia riprendendo un articolo di Francesco Viviano dello stesso giorno su Repubblica, il cognato di Messineo (e quindi anche la moglie) sarebbero parenti addirittura di quel Vanni Sacco, boss mafioso di Camporeale, che nel 1957 uccise l’onesto sindaco democristiano di quel paese, Pasquale Almerico, il quale aveva osato rifiutare la sua iscrizione (e quella di altri trecento mafiosi) al suo partito. Il martirio solitario di Pasquale Almerico è una delle pagine più tristi della storia siciliana. Beh, mai nessuno a partire dagli anni Ottanta (epoca in cui sul principale responsabile di quel delitto fu raggiunta certezza storica), avrebbe mai pensato che un parente (meglio, un affine) del boss Vanni Sacco sarebbe mai divenuto procuratore capo a Palermo, e invece così sarebbe avvenuto se la notizia di Viviano rispondesse al vero.
C’è da chiedersi: può fare il procuratore generale di Palermo un magistrato che è stato costretto ad astenersi dal coordinare le indagini perché tra gli inquisiti o imputati c’era taluno dei suoi familiari, creando tensioni e caos sulla via per Caltanissetta? Può fare il procuratore generale di Palermo un magistrato che più volte, da capo della stessa procura, ha abbandonato e costretto alla sovraesposizione i suoi sostituti?
Ecco, non vorrei dover pensare che Messineo si sia astenuto dal firmare l’atto conclusivo dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia per evitare di inimicarsi qualcuno che potrebbe essergli utile in questa corsa verso la procura generale.
Temo che, dopo il caso Catania, dovremo affrontare l’ennesimo Caso Palermo.