Nell’estate delle stragi Falcone e Borsellino, il ministero della giustizia guidato da
Claudio Martelli si oppose all’estensione del carcere duro a migliaia di detenuti, chiesto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Lo racconta il magistrato
Sebastiano Ardita, ex dirigente del Dap e oggi in servizio alla Procura di Catania, sentito come testimone dal Tribunale di Palermo nel processo per la mancata cattura del boss
Bernardo Provenzano, che vede imputati il generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello
Mauro Obinu. Secondo Ardita, nell’estate del 1992 il direttore del Dap
Niccolò Amato propose l’ampliamento del regime di carcere duro, sia pure in forma attenuata, a circa 5 mila detenuti nelle carceri italiane. Il suo suggerimento, però, rimase senza esito per l’opposizione degli uffici del ministero della Giustizia, all’epoca guidato dal socialista Martelli.
Rispondendo alle domane dei pm
Nino Di Matteo e
Antonio Ingroia, il magistrato ha ricostruito l’iter che andò in senso del tutto opposto agli intendimenti di Amato e che ebbe conseguenze un anno dopo, nel 1993, segnato dalle bombe mafiose a Roma, Firenze e Milano: una serie di revoche o mancate proroghe nel regime del 41bis. “In 140 casi – ha spiegato Ardita – si trattò di provvedimenti dovuti, mentre la mancata conferma di 334 di altri decreti non fu preceduta da alcuna istruttoria e arrivò il primo novembre del 1993. Furono consultati alcuni organi di polizia e la procura di Palermo, che ebbe la richiesta di informazioni solo il 29 ottobre, sabato e vigilia di un ponte festivo. L’ufficio palermitano rispose però a vista sconsigliando la ‘non proroga’. Gli organi di polizia risposero, invece, molto tempo dopo. Il risultato fu che i 41 bis furono effettivamente revocati”.
Ardita scrive di queste vicende nel libro “Ricatto allo Stato”.
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IlFattoQuotidiano.it