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Il caso Genchi - Storia di un uomo in balia dello Stato PDF Stampa E-mail
Rubriche - Libri
Scritto da Redazione 19luglio1992.com   
Sabato 26 Dicembre 2009 15:16

La redazione di 19luglio1992.com é felice di presentare il nuovo libro-intervista a Gioacchino Genchi, "Il caso Genchi: storia di un uomo in balia dello Stato", scritto dal giornalista Edoardo Montolli. In questa pagina potrete trovare tutte le informazioni relative al libro, dall'introduzione curata dal giornalista Marco Travaglio agli appuntamenti nei quali il libro verrà presentato nelle città italiane. Invitiamo calorosamente tutti gli utenti del sito a leggere questo testo per capire più in profondità come nasce e si è sostanziata la cosiddetta "seconda Repubblica".







«In Why Not avevo trovato le stesse persone sulle quali indagavo per la strage di via D’Amelio.
L’unica altra indagine della mia vita che non fu possibile finire».

Inizia così il dialogo tra Gioacchino Genchi e Edoardo Montolli. E per la prima volta viene a galla ciò che Silvio Berlusconi aveva definito «il più grande scandalo della Repubblica»: il cosiddetto «archivio Genchi». E viene a galla con nomi e cognomi. Un materiale del tutto inedito e così scottante da poter riscrivere gli ultimi vent’anni della storia d’Italia: da Tangentopoli alle scalate bancarie, dai grandi crac ai processi clamorosi. Fino alle stragi del 1992 e 1993. Dalle agende di Falcone agli ultimi due giorni di vita di Borsellino, con elementi completamente nuovi che aprono enormi squarci nelle istituzioni. Ma non con teorie o teoremi. Con dati. Fatti. Indagini e amicizie impensabili, uno scioccante dietro le quinte della politica che porta alle origini della seconda Repubblica. Dopo averlo letto niente vi sembrerà più come prima.

«La storia sconvolgente che spiega perché tanti potenti hanno paura del contenuto dell’archivio Genchi».
dalla prefazione di Marco Travaglio


 

Indice:


1) La prefazione al libro curata da Marco Travaglio
2) Notizie su Gioacchino Genchi
3) Notizie sull'autore del libro Edoardo Montolli
4) Il retro di copertina del libro
5) La casa editrice Aliberti editore
6) La pagina facebook dedicata al libro
7) Recensioni ed articoli sul libro
8) Foto e video degli incontri di presentazione del libro
9) Acquista il libro on-line
10) I prossimi appuntamenti dedicati alla presentazione del libro

11) Novità



 



La prefazione a cura di Marco Travaglio


Non ho alcuna intenzione di riassumere, in questa prefazione, il libro che state per leggere. Anzitutto perché non voglio levarvi il gusto di sfogliare pagina per pagina questo giallo intricato ma semplice al tempo stesso, che incrocia quasi tutti gli scandali del potere d’Italia: quelli che i professionisti della rimozione chiamano «misteri d’Italia» e che di misterioso in realtà non hanno un bel nulla. Ma soprattutto perché riassumerlo è impossibile. Diversamente dai gialli, qui non è importante il canovaccio della trama: qui sono importanti i particolari, tutti.

Vorrei, invece, parlare un po’ di Gioacchino Genchi e spiegare perché ce l’hanno tanto con lui. Perché è diventato, prima segretamente e da qualche anno apertamente, un nemico pubblico numero uno. E dunque perché Il caso Genchi (ma io l’avrei intitolato Il caso Italia) curato da Edoardo Montolli è tutto da leggere. Questione di memoria: Genchi non ha soltanto una memoria di ferro, Genchi è una memoria di ferro. Quella memoria che, per vivere tranquilli, bisognerebbe ogni tanto resettare e azzerare. Invece lui non ha mai proceduto per reset, ma sempre per accumulo. Possono levargli i fascicoli su cui sta lavorando, possono portargli via i computer, possono sequestrargli tutti i file memorizzati. Ma lui continua a ricordare e a collegare tutto. Dovrebbero proprio eliminarlo fisicamente, per renderlo inoffensivo. Con quel po’ po’ di database nel cervello, Genchi avrebbe potuto diventare stramiliardario (in euro), senza neppure il bisogno di ricattare questo o quello: gli sarebbe bastato far sapere di essere in vendita e mettersi all’asta. La prova migliore della sua onestà è proprio il fatto che non ha mai guadagnato un euro in più di quello che gli derivava dal suo lavoro. Che non ha mai fatto uso delle informazioni che, incrociando i dati delle intercettazioni e soprattutto dei tabulati telefonici acquisiti da decine di uffici giudiziari, per vent’anni è stato chiamato a esaminare al servizio della Giustizia. Mettete insieme memoria e onestà, e avrete una miscela esplosiva, anzi eversiva. Che basta, da sola, a spiegare perché in un Paese come l’Italia Genchi è visto come un pericolo pubblico. Non ruba, non ricatta, sa che cosa sono le leggi e lo Stato e li serve fedelmente, e per giunta non è ricattabile. Riuscite a immaginare un nemico peggiore, per i poteri fuorilegge che si spartiscono l’Italia praticamente da quando è nata?

Genchi è un poliziotto. Un vicequestore che fino all’anno scorso era in aspettativa per dedicarsi a tempo pieno a mettere a frutto la sua esperienza investigativa in materia informatica e telefonica in delicatissimi processi e inchieste, di mafia, di strage, di omicidio, di sequestro di persona, e così via. Lavorava già con Giovanni Falcone, di cui poi, dopo la strage di Capaci, riuscì a estrarre, da un computer manipolato dalle solite manine premurose, i diari segreti. Dopo via D’Amelio, riuscì a ricostruire – tabulati alla mano – gli ultimi due giorni di vita di Paolo Borsellino e i contatti fra alcuni suoi carnefici e una probabile sede distaccata dei servizi segreti al castello Utveggio sul Monte Pellegrino. Da diciassette anni è consulente di varie Procure, Tribunali e Corti d’Assise. Ha fatto catturare fior di latitanti, incastrato assassini e stragisti, ma anche tangentari e finanzieri sporchi, smascherato malaffari di ogni genere. Ha dato contributi decisivi alle indagini sui mandanti occulti delle stragi di Capaci e via D’Amelio, sui fiancheggiatori di Bernardo Provenzano, sugli amici mafiosi di personaggi come Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro.

Già nel 2004 l’onorevole Emerenzio Barbieri dell’Udc (il partito di Cuffaro, ma anche di Cesa, mesi dopo indagato a Catanzaro dal pm Luigi de Magistris) attacca Genchi alla Camera con un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia Roberto Castelli, ma il secondo Governo Berlusconi deve ammettere a denti stretti che la sua attività era perfettamente regolare. Nel luglio del 2007 l’assalto riparte, quando il sito web Radiocarcere.it pubblica la sua relazione all’allora pm di Catanzaro Luigi de Magistris, in cui compare per qualche ora il numero di uno dei cellulari usati dal guardasigilli Mastella. Quest’ultimo gli dà del «mascalzone» e due mesi dopo lo chiama in una conferenza «Licio Genchi», come se l’amico di piduisti fosse Genchi e non Mastella. Lino Jannuzzi e altri parlamentari del centrodestra lo accusano apertamente di compiere indagini senza mandato e di raccogliere illecitamente dati su politici e uomini delle istituzioni per tenerli sotto ricatto. Genchi replica ricordando che lui è solo un consulente tecnico e che ogni suo atto è richiesto e autorizzato da un magistrato.

Poi spiega che il documento con il cellulare di Mastella ha il timbro del Tribunale del Riesame, dunque non esce dal suo ufficio, bensì dal Palazzo di Giustizia di Catanzaro. È finito in rete – constata – subito dopo essere stato depositato agli avvocati di un indagato, l’ex piduista Luigi Bisignani, condannato in via definitiva per la maxitangente Enimont e dunque amico del ministro della Giustizia del centrosinistra: «Metterlo per un’ora sul web» dichiara Genchi «è stata una trappola, una manovra contro di me e de Magistris. Per permettere di additare la fuga di notizie e gridare al complotto». Mastella finge di non capire e ripete la domanda già posta, con esiti disastrosi, dall’Udc due anni prima: «Ma uno che è in aspettativa dalla polizia può lavorare con la sua ditta per lo Stato?» Sì, può. Anzi, deve.

Ma Genchi, nelle inchieste catanzaresi Why Not, Toghe lucane e Poseidone, sta aiutando de Magistris a ricostruire la cosiddetta Nuova P2, cioè il trasversalissimo cupolone politico-affaristico-massonico-giudiziario che tiene in scacco l’Italia. Una piovra che affratella esponenti del centro, della destra e della sinistra. Infatti, nel giugno del 2007, il procuratore Mariano Lombardi toglie a de Magistris l’inchiesta Poseidone, il cui principale indagato è il suo amico Pittelli, senatore forzista e socio in affari del figlio della sua convivente. A settembre il ministro Mastella sperimenta per la prima volta la nuova facoltà di chiedere il trasferimento d’urgenza di un magistrato, conferitagli dall’ordinamento giudiziario Castelli che il centrosinistra aveva promesso di cancellare e che invece, proprio in quella parte, ha lasciato entrare in vigore tale e quale nel luglio 2006. E chi è, fra i novemila magistrati italiani, il fortunato vincitore della prima richiesta di trasferimento? L’unico in tutta Italia che indaga sul premier Romano Prodi e sulle telefonate tra Mastella e i suoi amici indagati Antonio Saladino (numero uno della Compagnia delle Opere calabrese) e Luigi Bisignani. Quando si dice la combinazione. Il Csm non ravvisa alcuna urgenza nella pratica, ma qualcun altro ha una gran fretta: il procuratore generale «reggente» di Catanzaro, Dolcino Favi, che proprio nel giorno in cui il Csm nomina il pg titolare, non attende nemmeno che questi si insedii e decide di avocare un altro fascicolo a de Magistris, facendoglielo portare via dalla cassaforte e spedendolo al Tribunale dei Ministri di Roma. Quale fascicolo, tra i tanti? Proprio il Why Not, che vede indagati Prodi (per abuso d’ufficio, ma solo come atto dovuto) e, da qualche giorno, pure Mastella (finanziamento illecito e truffa): quando si dice la combinazione. Motivo: de Magistris ce l’ha con Mastella che ha chiesto di trasferirlo. L’idea che sia Mastella ad avercela con de Magistris perché sta indagando su di lui non sfiora nemmeno il solerte «reggente». Il quale, anziché lasciare che della spinosa faccenda si occupi il pg titolare già nominato dal Csm e ormai in arrivo, assume un’altra iniziativa gravissima e irrimediabile: revoca tutti gli incarichi al consulente tecnico del pm, Gioacchino Genchi. Completa l’opera l’Arma dei carabinieri, che pensa bene di promuovere e trasferire su due piedi il capitano Pasquale Zacheo, braccio destro di de Magistris nell’unica inchiesta superstite: Toghe lucane. Via il braccio destro, via il braccio sinistro, via le indagini, in attesa di mandar via direttamente il pm. Che sarà trasferito di lì a poco dal Csm lontano da Catanzaro (a Napoli), con l’espresso divieto di esercitare mai più le funzioni di pubblico ministero.

«Sono a rischio le mie libertà» afferma Mastella con grave sprezzo del ridicolo, denunciando di essere stato intercettato illegalmente, cioè in barba all’immunità. Forse che de Magistris e Genchi non conoscono l’articolo 68 della Costituzione che proibisce di intercettare i parlamentari e di acquisirne i tabulati telefonici? O forse sono impazziti e hanno deciso di viziare fin dall’inizio un’indagine così delicata per mandarla a catafascio e salvare il guardasigilli dalle sue eventuali responsabilità?

Per comprendere ciò che è accaduto basta leggere la consulenza Genchi depositata a disposizione degli indagati (quella su Mastella e Bisignani). Genchi, esaminando i tabulati di Bisignani trasmessigli dal pm, s’è imbattuto in una serie di utenze telefoniche in contatto con lui. Non tutte le utenze hanno un nome e un cognome. Una è intestata alla Camera dei deputati, ma può essere in uso a un impiegato, a un usciere, a un segretario. Per sapere di chi è un telefono, bisogna fare accertamenti. E, per farli, bisogna acquisire i tabulati. Solo alla fine si scopre chi è il titolare, che fra l’altro può pure cederlo a un terzo. Così si è arrivati a scoprire che il telefono era di Mastella. Lo stesso è avvenuto per le telefonate intercettate tra Saladino e il ministro. «Per l’eventuale utilizzazione processuale» scrive Genchi nella consulenza «dovrà richiedersi la prescritta autorizzazione al competente ramo del Parlamento». Segno evidente che sia lui sia il pm conoscono bene la legge. Tant’è, quando è stato scippato del fascicolo Why Not, de Magistris si apprestava a chiedere al Parlamento l’autorizzazione a usare le telefonate indirettamente intercettate fra Mastella e gli indagati Saladino e Bisignani. L’avocazione dell’inchiesta è arrivata appena in tempo per impedirglielo. Ma anche quella inesistente violazione dell’immunità verrà contestata in sede disciplinare a de Magistris dal procuratore generale della Cassazione, Mario Delli Priscoli.

Siamo in pieno «comma 22»: per essere esonerato dai voli di guerra, il pilota deve essere pazzo; ma, se chiede l’esonero dai voli di guerra, il pilota non è pazzo; pazzo è chi fa i voli di guerra; ergo è impossibile essere esonerati dai voli di guerra. L’ok del Parlamento è richiesto nel caso in cui l’indagato parli con un parlamentare. Per sapere se l’indagato parla con un parlamentare, bisogna indagare sulla titolarità dei telefoni in contatto con l’indagato. De Magistris lo fa, scopre che dall’altro capo del filo c’è Mastella, lo iscrive nel registro degli indagati, ma non può chiedere l’ok del Parlamento perché Mastella chiede il suo trasferimento e il pg gli leva l’inchiesta. E lo accusano di aver acquisito i tabulati prima dell’ok del Parlamento, al quale però non avrebbe mai potuto chiedere l’ok prima di acquisirli e di scoprire che vi compariva pure telefono di Mastella. Ergo, è vivamente sconsigliabile indagare su chicchessia: se poi si scopre che parla con Mastella, Mastella è salvo, i suoi amici pure, ma il pm è rovinato. La parola d’ordine, ormai, è distruggere la memoria di Genchi e chiunque la utilizzi. Una parola d’ordine che diventa addirittura legge il 31 luglio con la delibera numero 178 approvata dall’Autorità garante per la privacy per stabilire nuove regole per i consulenti dei pm e i periti dei giudici: essi non potranno più conservare nei loro archivi i dati e i documenti raccolti per un’indagine dopo che questa è terminata, ma dovranno restituirli ai magistrati o «cancellarli». Rigorosamente vietato «conservare, in originale o in copia, in formato elettronico o su supporto cartaceo, informazioni personali acquisite nel corso dell’incarico». Direttiva a dir poco discutibile: un’indagine archiviata può essere riaperta in qualsiasi momento se emergono elementi nuovi. E spesso è molto utile che il consulente conservi i dati vecchi per riusarli e incrociarli con quelli nuovi, senza dover ripartire ogni volta da zero. Ora non si potrà più farlo. Chissà perché: le banche dati dei periti non presentano alcun rischio per la privacy, visto che questi sono pubblici ufficiali tenuti alla massima riservatezza. Ma le perplessità aumentano se si guarda al relatore della delibera destinata a svuotare le indagini cancellando la memoria storica di tanti scandali: quella del vicepresidente dell’Autorità garante, Giuseppe Chiaravalloti. Ex magistrato, ex governatore forzista della Calabria, Chiaravalloti è indagato in quel momento a Catanzaro per associazione a delinquere nell’inchiesta Poseidone (poi il nuovo pm opterà per l’archiviazione) e a Salerno per corruzione giudiziaria e minacce. Ora, si dà il caso che a entrambe le indagini abbia collaborato Genchi. Ed è curioso che a impartire le nuove direttive ai consulenti, lui compreso, sia proprio uno dei suoi «clienti» più illustri. Possibile che il «garante» Franco Pizzetti abbia designato proprio Chiaravalloti come relatore, in barba al suo plateale conflitto d’interessi? Forse la scelta è caduta su di lui per la competenza maturata in fatto di indagini giudiziarie (a carico). O magari per le sue doti profetiche. In una telefonata intercettata nel 2006 con la segretaria, Chiaravalloti così parlava di de Magistris: «Questa gliela facciamo pagare… Lo dobbiamo ammazzare. No, gli facciamo cause civili per danni e ne affidiamo la gestione alla camorra napoletana… Saprà con chi ha a che fare… C’è quella sorta di principio di Archimede: a ogni azione corrisponde una reazione… Siamo così tanti ad avere subito l’azione che, quando esploderà, la reazione sarà adeguata! Vedrai, passerà gli anni suoi a difendersi…»

Il 2 dicembre 2008 la Procura di Salerno fa perquisire gli uffici giudiziari di Catanzaro e le abitazioni di alcuni magistrati, politici e faccendieri calabresi, indagati per aver prima sabotato, poi esautorato e allontanato de Magistris dalle sue inchieste e dalla Calabria, e infine di aver compravenduto l’insabbiamento dei suoi fascicoli più scottanti.

Grazie anche a una consulenza firmata da Genchi, i pm salernitani Luigi Apicella, Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani ritengono di avere le prove della corruzione giudiziaria e di una serie di abusi. Calunnie e diffamazioni che hanno contribuito all’isolamento e alla cacciata del collega da Catanzaro per poi poterne «aggiustare» le indagini. Siccome da mesi chiedono, invano, la copia integrale degli atti di Why Not, stufi di attendere, vanno a sequestrarne l’originale. Apriti cielo. I magistrati catanzaresi si ribellano, controsequestrano il fascicolo appena sequestrato e, senz’alcuna competenza territoriale (che spetterebbe a Napoli), inquisiscono i pm salernitani che indagano su di loro. Anziché denunciare la reazione illegale e sediziosa dei magistrati calabresi, la classe politica tutta (tranne Di Pietro), con la stampa e le tv al seguito, grida alla «guerra fra Procure», mettendo sullo stesso piano aggressori e aggrediti. Anzi, prende le parti degli aggressori, cioè dei magistrati di Catanzaro. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con un’interferenza mai vista in un’indagine in corso, chiede gli atti a Salerno e critica apertamente la perquisizione. L’Anm e il Csm, anziché difendere i pm attaccati mentre fanno il proprio dovere, si associano agli attacchi. Il Consiglio superiore appronta un processo sommario e in men che non si dica, comprimendo ogni elementare diritto di difesa, punisce in via cautelare e urgente il procuratore capo Apicella con la destituzione dalla magistratura e i suoi sostituti Nuzzi e Verasani con il trasferimento nel Lazio e con il divieto di esercitare mai più le funzioni requirenti. Come aveva fatto alcuni mesi prima con de Magistris.

La Procura di Roma indaga i tre pm e de Magistris, considerato il loro ispiratore, per interruzione di pubblico servizio e abuso d’ufficio. Poco importa se il Riesame di Salerno ha già ritenuto legittima e doverosa la perquisizione a Catanzaro e se il Tribunale di Perugia (cui il fascicolo sui magistrati è passato per competenza) archivierà ogni accusa, ritenendo che Nuzzi, Verasani, Apicella e de Magistris abbiano agito per esclusivi «fini di Giustizia». Nessuno deve osare mai più mettere il naso nel verminaio di Catanzaro, né tanto meno ipotizzare una Nuova P2 che inquina la vita democratica del Paese. Eppure proprio la sorte infausta che tocca a chiunque abbia l’ardire di sfiorarla non fa che portare nuove prove sulla sua esistenza e sulla sua geometrica potenza.

La classe politica tutta è ormai terrorizzata dalle intercettazioni e dai tabulati, che sempre più spesso svelano contatti e amicizie fra uomini di partito e uomini d’onore e disonore. Infatti prima Mastella e poi il suo degno successore Angelino Alfano (cioè Berlusconi) passano il tempo ad approntare leggi che impediscano le intercettazioni e imbavaglino la stampa. Così riparte l’assalto a Gioacchino Genchi, trasformato nel mostro da sbattere in prima pagina per creare a tavolino un allarme rosso che non ha fondamento nei fatti ma che, debitamente manipolato, può finalmente convincere gli italiani che in Italia non sono troppi i delinquenti, specie in guanti gialli e colletto bianco: sono troppi gli intercettati. Poco importa se Genchi non ha mai intercettato nessuno in vita sua: basta ripetere a reti unificate che intercetta tutti, che scheda milioni di persone, ovviamente a scopo ricattatorio, e il gioco è fatto. Tutti finiranno col crederci.

Si ripete pari pari la scena, anzi la sceneggiata, dell’ottobre del 1996, quando si trattava di far digerire un altro boccone sommamente indigesto agli italiani di destra e di sinistra: la Bicamerale, cioè l’inciucio fra D’Alema e Berlusconi per mettere in riga la magistratura e farla finita una volta per tutte con le indagini sui potenti. Il cavaliere convocò la stampa di tutto il mondo e mostrò all’intero orbe terracqueo una gigantesca «microspia» che, a suo dire, fantomatiche «Procure eversive e deviate» avevano nascosto nel suo studio a Palazzo Grazioli per spiare l’allora capo dell’opposizione di centrodestra calpestando la Costituzione. D’Alema, che stava per diventare presidente della Bicamerale con i voti di Forza Italia, si affrettò a solidarizzare col povero Silvio e ne approfittò per sollecitare un «colpo di reni» per riscrivere tutti insieme la Costituzione. Il presidente della Camera Luciano Violante, che non aspettava di meglio, convocò Montecitorio in seduta straordinaria e diede la parola al Cavaliere, che denunciò lo «spionaggio ai danni del leader dell’opposizione, il più grave attentato alle libertà parlamentari della storia repubblicana». Mesi dopo, nel silenzio dell’informazione, la Procura di Roma scoprì che il «cimicione» era un ferrovecchio inservibile che era stato nascosto in casa Berlusconi non dalle toghe rosse, ma da un disinvolto amico dell’addetto alla sicurezza del cavaliere: incaricato di «bonificargli» l’appartamento, il cialtrone non aveva trovato alcunché, dunque aveva pensato bene di nascondere lui la micro anzi macrospia. Una solennissima bufala, utilissima per spianare la strada alla Bicamerale.

Il 24 gennaio 2009 si replica per spalancare le porte al nuovo inciucio: il bavaglio sulle intercettazioni. Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, terrorizzato dalla possibile uscita di certe telefonate che minacciano di svelare il quarto segreto di Fatima (perché Mara Carfagna fa il ministro delle Pari opportunità e Mariastella Gelmini dell’Istruzione), annuncia in tv: «Sta per scoppiare uno scandalo enorme, il più grande della storia della Repubblica: c’è un signore che ha spiato trecentocinquantamila persone». Il signore in questione è Gioacchino Genchi che, come abbiamo appena ricordato, non ha mai intercettato nessuno in vita sua: riceve intercettazioni e tabulati disposti e acquisiti dai pubblici ministeri e dai giudici secondo la legge e li incrocia per leggerli e interpretarli al meglio. Incastrando colpevoli e scagionando innocenti.

Quella berlusconiana è un’altra patacca. Ma anche stavolta un’opposizione evanescente e disinformata (nel migliore dei casi) e una stampa sciatta e gregaria se la bevono d’un fiato, sparacchiando cifre a casaccio e accusando «lo spione» di ogni nequizia senza uno straccio di prova.

I politici, noti garantisti, emettono la loro unanime sentenza di condanna.

Maurizio Gasparri (Pdl): «Roba da Corte marziale». Francesco Rutelli (Pd): «Un caso molto rilevante per la libertà e la democrazia».
Fabrizio Cicchitto (Pdl): «Siamo di fronte a un inquietante Grande fratello». Lanfranco Tenaglia (Pd): «Vicenda grave». Italo Bocchino (Pdl): «Il più grande caso di spionaggio della storia repubblicana». Clemente Mastella (Udeur): «È un pericolo per la democrazia». Luciano Violante (Pd): «Intollerabile». Gaetano Quagliariello (Pdl): «Scenario inimmaginabile e preoccupante per la sicurezza dello Stato». Giuseppe Caldarola (ex Pd, commentatore de Il Riformista): «Spioni deviati spiano migliaia di cittadini, Parlamento e Governo». Luigi Zanda (Pd): «Tavaroli e Genchi, tante analogie» (infatti uno spiava illegalmente migliaia di persone per un’azienda privata, l’altro lavora legalmente per lo Stato). I giornali si scatenano. La Stampa e il Corriere: «Un italiano su dieci nell’archivio Genchi». Il Giornale: «Grande Orecchio, miniera d’oro». Libero: «L’intercettatore folle». Pierluigi Battista (Corriere della sera): «Lugubre monumento alla devastazione della privacy, nuvola potenzialmente ricattatoria».

Naturalmente è tutto falso: l’«archivio Genchi», almeno così come viene descritto, non esiste. Esistono invece montagne di dati che il consulente riceve dalle Procure che l’hanno nominato e che lui «incrocia» per espletare il suo mandato. Tutto lecito e alla luce del sole.

Ben altri sono gli archivi segreti e potenzialmente ricattatorii emersi nella recente storia d’Italia. Giulio Andreotti, senatore a vita, ammette di tenere un archivio segreto da una vita e fa sapere che «qualche mistero me lo porterò nella tomba». Eppure viene celebrato da tutti i politici, o forse proprio per questo. L’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga ogni tanto tira fuori una rivelazione o un’allusione sulla strategia della tensione anni Settanta-Ottanta, lasciando intendere di sapere molto di più. Eppure nessuno gliene chiede mai conto, o forse proprio per questo. Bettino Craxi, da Hammamet, distillava fax per fulminare questo o quel politico ostile («potrei ricordarmi qualcosa di lui…») e conservava dossier, «poker d’assi» e intercettazioni su colleghi e magistrati. Eppure la Casta lo beatifica ogni giorno, o forse proprio per questo. Nel 2005, in un ufficio di via Nazionale a Roma, fu rinvenuto l’archivio segreto di Pio Pompa, «analista» prediletto dell’allora comandante del Sismi Nicolò Pollari, con migliaia di dossier su cronisti, pm e politici sgraditi a Berlusconi, da «neutralizzare e disarticolare anche con azioni traumatiche». Pompa e Pollari sono imputati per quell’archivio illegale, eppure i governi di destra e sinistra li coprono, o forse proprio per questo. Giuliano Tavaroli, ex capo della «security» della Telecom di Marco Tronchetti Provera, è imputato per aver accumulato migliaia di dossier su giornalisti, politici e imprenditori spiati illegalmente. Eppure nessuno ne parla, o forse proprio per questo. Genchi lavora su intercettazioni e tabulati legalmente acquisiti da giudici in indagini su gravi reati. Eppure dicono che il delinquente è lui, o forse proprio per questo. Il problema in Italia non sono le intercettazioni illegali. Ma quelle legali.

Infatti Renato Farina, il giornalista al soldo del Sismi di Pollari e Pompa, nome in codice «agente Betulla», che ha patteggiato sei mesi al Tribunale di Milano per favoreggiamento nel sequestro Abu Omar e dunque prontamente promosso deputato dal Popolo delle libertà, propone una commissione parlamentare d’inchiesta sul «caso Genchi». E il Comitato parlamentare di controllo sui servizi di sicurezza (Copasir) convoca Genchi a discolparsi. Per un’intera giornata, il consulente spiega ai parlamentari del comitato come funziona la sua attività perfettamente legale. Ma quelli o non capiscono, o fingono di non capire. Come dimostra la loro relazione finale, un’accozzaglia di corbellerie, fraintendimenti e assurdità. Si confondono i tabulati (numero chiamante e chiamato, orari e luoghi della chiamata) con le intercettazioni (contenuto della telefonata). Si insiste sulla baggianata dell’«archivio», mentre si tratta dei tabulati di un’indagine in pieno corso detenuti da Genchi per elaborarli su ordine di un pm. Si seguita a scambiare i tabulati acquisiti in Why Not (752) con i «tracciati» (decine di migliaia di chiamate in entrata e uscita, spesso fatte dagli stessi utenti). Si mena scandalo per tracciati e tabulati di «persone non indagate», quando anche un bambino sa che i non indagati possono essere pure intercettati, e comunque il tabulato di un indagato contiene i suoi contatti con una miriade di utenti sconosciuti se non per il numero di telefono. Si insiste con la fesseria del segreto di Stato, come se questo potesse coprire numeri di telefono. E come se il problema non fossero i rapporti fra servitori dello Stato e noti faccendieri indagati. Si chiede di affidare le consulenze «alle forze di polizia» e non a Genchi (che è un vicequestore di polizia), come se ogni giorno le Procure non si affidassero a centinaia di privati (docenti universitari, medici legali, periti balistici, psichiatri e così via). E non si spiega perché il metodo Genchi va benissimo quando porta all’ergastolo assassini e stragisti, ma non quando si occupa di colletti bianchi. Resta da capire se dietro ci sia ignoranza o malafede. E che cosa sia peggio.

Sta di fatto che, dopo l’ordine lanciato da Berlusconi e subito raccolto dal Copasir di Rutelli, si muove la sempre servizievole Procura di Roma. I procuratori aggiunti Achille Toro (le cui gesta, giudiziarie e telefoniche, sono ampiamente raccontate nel libro) e Nello Rossi si affrettano a indagare Genchi per una serie di presunti reati commessi nella consulenza Why Not: accesso abusivo a sistema informatico, violazione della legge sulla privacy e abuso d’ufficio per inosservanza delle prerogative dei parlamentari e del segreto di Stato (intanto altri pm della stessa Procura nominano lo stesso Genchi consulente su un caso di omicidio). E, non contenti, gli fanno perquisire gli uffici a Palermo dal Ros dei carabinieri, che gli sequestrano non soltanto gli atti dell’indagine catanzarese, ma l’intero server informatico contenente gli originali di tutte le altre consulenze a cui sta lavorando, comprese quelle commissionategli dalla stessa Procura di Roma, comprese quelle in cui sono coinvolti ufficiali del Ros. La classe politica, pressoché unanime, esulta: finalmente hanno smascherato il mostro. Gasparri, col consueto equilibrio, chiede ufficialmente l’arresto di Genchi.

Ora, anzitutto, non si vede che cosa c’entri la Procura di Roma, e cioè quale competenza territoriale possa accampare su eventuali reati commessi a Catanzaro o a Palermo. Oltre alle denunce dei magistrati di Catanzaro (quelli indagati dalla Procura di Salerno grazie anche al lavoro di Genchi), ci sono a carico del consulente una serie di contestazioni per fatti accaduti a Mazara del Vallo, dove Genchi assiste la Procura di Marsala nelle indagini sulla scomparsa della piccola Denise Pipitone. Anche di questi, sorprendentemente, si occupa la Procura di Roma. Ma veniamo alle accuse, che rasentano la fantascienza.

Accesso abusivo all’Anagrafe tributaria dell’Agenzia delle entrate: Genchi è accusato di aver usato la password fornitagli dal Comune di Mazara per le indagini su Denise anche per estrarre dati utili ad altre consulenze che aveva in corso per conto di altri uffici giudiziari. Ma di password d’accesso se ne può avere soltanto una alla volta, e comunque l’accesso con la password del Comune di Mazara non può essere abusivo perché autorizzato da vari pm.

Abuso d’ufficio per violazione dell’immunità parlamentare: Genchi è accusato di aver acquisito tabulati telefonici «riconducibili a parlamentari» senza la preventiva autorizzazione del Parlamento. Ma, per sapere che un telefono è riconducibile a Tizio o Caio, bisogna prima acquisirlo. E ad acquisirlo non è il consulente, ma il pm. E l’autorizzazione delle Camere è richiesta per usare i tabulati nel processo, non per acquisirli in fase di indagine. E comunque i tabulati in questione non erano riconducibili a parlamentari: quello di Mastella era intestato alla Camera e al Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap); quello di Marco Minniti (Ds) faceva capo a un tizio di Treviso; quello di Beppe Pisanu (Pdl) a tale Stefania I.; quello del governatore calabrese Agazio Loiero non era neppure coperto da immunità perché Loiero non era parlamentare.

Abuso d’ufficio per violazione del segreto di Stato: Genchi è accusato di aver acquisito tabulati di agenti segreti e di essere così venuto a conoscenza di segreti di Stato. Ma i tabulati degli 007 non sono coperti da alcun segreto di Stato. E comunque, per sapere se un telefono appartiene a un agente segreto, bisogna prima acquisirlo e identificarne l’utilizzatore.

Violazione della privacy: non esiste alcuna privacy quando il soggetto intercettato o controllato nei suoi tabulati telefonici è oggetto di indagine giudiziaria.

Queste cose le sanno anche i bambini, ma per Genchi si voltano tutti dall’altra parte. Anzi, peggio. Dopo la perquisizione si mobilita il vertice della polizia di Stato. Per difendere il suo vicequestore attaccato da ogni parte? No, per sospenderlo dal servizio, con tanto di ritiro del tesserino e dell’arma di ordinanza. Motivo: ha rilasciato interviste per difendersi dalle calunnie e ha risposto su Facebook alle critiche di un giornalista, Gianluigi Nuzzi, all’epoca in forza a Panorama. Quella di Genchi viene definita nel provvedimento una «condotta lesiva per il prestigio delle istituzioni» che rende «la sua permanenza in servizio gravemente nociva per l’immagine della polizia». Firmato: il capo della polizia, Antonio Manganelli. Curioso provvedimento, se si pensa che Genchi, a parte le interviste e Facebook, è soltanto indagato.

Invece i poliziotti condannati in primo grado per aver massacrato di botte decine di no global al G8 di Genova 2001 sono rimasti tutti ai posti di combattimento e alcuni hanno addirittura fatto carriera (come racconta Massimo Calandri in Bolzaneto, la mattanza della democrazia, DeriveApprodi, 2009). Vincenzo Canterini, condannato a quattro anni in primo grado per le violenze alla scuola Diaz, è stato promosso questore e ufficiale di collegamento Interpol a Bucarest. Michelangelo Fournier, condannato a due anni in primo grado, è al vertice della Direzione centrale antidroga. Alessandro Perugini, celebre per aver preso a calci in faccia un quindicenne, condannato in primo grado a due anni e quattro mesi per le sevizie a Bolzaneto e a due anni e tre mesi per arresti illegali, è divenuto capo del personale alla Questura di Genova e poi dirigente in quella di Alessandria. Le loro condotte non erano «lesive per il prestigio delle istituzioni» e la loro permanenza non è «nociva per l’immagine della polizia»?

Contro la perquisizione e il sequestro, Genchi ricorre al Tribunale del Riesame attraverso il suo avvocato Fabio Repici. E il Riesame, sotto la presidenza del giudice Francesco Taurisano, annulla entrambi i decreti della Procura di Roma e ordina che gli vengano restituiti tutti i computer. Nella motivazione si legge che Genchi – il mostro che per Gasparri «merita l’arresto» – «ha agito correttamente» senza violare alcuna legge. Le accuse mossegli dai procuratori aggiunti Toro e Rossi – sostengono in pratica i giudici del Riesame – non stanno né in cielo né in terra. Genchi «non ha violato le guarentigie dei parlamentari interessati all’acquisizione dei tabulati» in quanto «agiva di volta in volta in forza del decreto autorizzatorio del pm de Magistris, comunicandogli ogni… coinvolgimento di membri del Parlamento intestatari delle utenze». L’accesso all’Anagrafe tributaria dell’Agenzia delle entrate «non ha arrecato nocumento» ad alcuno. Quanto ai tabulati di uomini dei servizi segreti, «non è dato comprendere il nocumento per la sicurezza dello Stato», ma soprattutto «il Tribunale non rinviene la norma di legge» che vieterebbe di acquisirli. Insomma «Genchi agì nell’esercizio delle sue funzioni di ausiliario del pm de Magistris». Di più: avrebbe commesso un reato non facendo ciò che ha fatto, visto che era suo dovere eseguire le disposizioni dei pm e dei giudici che l’avevano incaricato di studiare e incrociare i tabulati della discordia.

Ma, nonostante l’ordine del Riesame di restituirgli subito tutto il materiale sequestrato, la Procura di Roma gliene ridà indietro solo una parte, e ricorre in Cassazione. Qui il 25 e 26 giugno, i supremi giudici si producono in due sentenze contrastanti: una prima sentenza dichiara inammissibile il ricorso della Procura e conferma il dissequestro a proposito dei reati di accesso illegale a sistema informatico e di violazione della privacy; la seconda decisione accoglie solo in parte il ricorso contro il dissequestro a proposito del presunto abuso d’ufficio per violazione dell’immunità dei parlamentari.

È venuto il momento, cari lettori, di lasciarvi alla lettura di questo thriller-verità. Un thriller sconvolgente per vari motivi: spiega perché tanti potenti hanno paura del contenuto del cosiddetto «archivio Genchi»; che cosa aveva scoperto e stava per scoprire Luigi de Magistris, e dunque perché non doveva proseguire nelle sue indagini a Catanzaro sulla cosiddetta Nuova P2; perché chiunque gli abbia poi dato ragione doveva pagare, come lui, caro e salato; quali fili collegano i politici calabresi con i leader della politica nazionale e della parte più marcia della magistratura e della finanza nazionale, nonché della massoneria.

E poi magistrati in contatto con boss della ’ndrangheta, procuratori che vanno a pranzo con i loro indagati, giudici che vanno a braccetto con avvocati poco prima di scarcerare i loro assistiti, fughe di notizie pilotate per depistare e bloccare indagini o addirittura per favorire la fuga di ’ndranghetisti stragisti. E poi collegamenti, tanti, forse troppi per non impazzire: collegamenti insospettabili e inaspettati, come quelli che portano al delitto Fortugno e alla strage di Duisburg, ma anche all’affare Sme, al grande business miliardario delle licenze per i telefonini Umts, ai crac Cirio e Parmalat, alle scalate dei furbetti e dei furboni del quartierino all’Antonveneta, alla Bnl e al Corriere della sera, allo scandalo degli spionaggi e dei dossieraggi Telecom-Sismi. Vicende nelle quali, come fantasmi eternamente danzanti, ricicciano fuori personaggi già emersi nelle indagini di Genchi sulle stragi di Capaci e via d’Amelio, cioè sulla sanguinosa nascita della seconda Repubblica.

Personalmente, oltre ai capitoli su Catanzaro e sul clan Mastella, ho trovato agghiacciante quello sull’ex iscritto alla P2 Giancarlo Elia Valori, poi espulso per indegnità (sic) da Licio Gelli, e tutt’oggi gran collezionista di cariche pubbliche e private e di amicizie a destra come a sinistra, con incredibili entrature nei vertici della politica, della magistratura, della guardia di finanza, dei carabinieri, del Viminale, del salotto buono di Mediobanca ma anche di outsider come i furbetti delle scalate. Valori era il prossimo obiettivo di de Magistris, che fu fermato appena in tempo. I frenetici contatti telefonici di Valori con il procuratore aggiunto di Roma Achille Toro (sempre lui), anche sui telefoni della moglie e del figlio del magistrato, ma anche con i vari Latorre, Minniti, Cossiga, Ricucci, Geronzi, Benetton, Caltagirone, Gavio, Rovati, con i generali Cretella, Adinolfi e Jannelli delle Fiamme gialle, ma anche con i centralini del Viminale, di Bankitalia e del Vaticano nei giorni cruciali dei processi e delle indagini su umts, Parmalat, Cirio e Unipol dovrebbero imporre l’immediato intervento del Csm. Il fatto che Toro, così amico di Valori, non abbia avuto il buon gusto di astenersi dalle indagini su Genchi, di cui non poteva ignorare i risultati, è davvero sconcertante; tanto più che il procuratore non solo è intimo di Valori e, secondo Genchi, ha un figlio nominato consulente del Ministero della Giustizia da Clemente Mastella; ma – sempre secondo gli incroci di Genchi – telefonava spesso al principale indagato delle inchieste di de Magistris: l’onorevole avvocato berlusconiano Giancarlo Pittelli, legale della Torno Internazionale di cui è presidente, indovinate un po’? Ma sì, lo stesso Giancarlo Elia Valori. Suggerisco a Montolli e a Genchi di fare omaggio de Il caso Genchi a tutti i consiglieri di Palazzo dei Marescialli.

Ammesso e non concesso che le notizie riportate nel libro giungano nuove a qualcuno di loro. E che il Csm non voglia continuare a essere, all’infinito, l’acronimo di Ciechi Sordi Muti.


Marco Travaglio
 

 


Notizie su Gioacchino Genchi


Gioacchino Genchi è nato a Castelbuono (PA) il 22 agosto 1960. E’ sposato ed ha tre figli. Castelbuono è una ridente località della provincia di Palermo, situata alle pendici delle "Madonie". E un paese con grandi tradizioni di democrazia, cultura, civiltà e legalità. Gioacchino Genchi ha conseguito il diploma di maturità tecnica con 60/60. Ha iniziato a lavorare in un'azienda specializzata del centro Italia, nel settore informatico. Ha conseguito la laurea in Giurisprudenza con 110/110 e la Lode Accademica. Ha intrapreso la carriera forense ed ha conseguito l’abilitazione all'esercizio della professione di “Avvocato”, nonché l’abilitazione all’insegnamento di materie giuridiche. Nel 1985 ha superato il Concorso di Funzionario della Polizia di Stato. In atto ricopre la qualifica di Vice questore aggiunto. Dall’ingresso in Polizia ha ricoperto diversi uffici e svolto l’incarico di consulente tecnico dell’Autorità Giudiziaria in importanti indagini e processi penali. Ha svolto numerosi incarichi di insegnamento, nelle scuole di polizia e nei corsi di formazione per i Magistrati, su incarico del CSM (Fonte: il
BLOG "Legittima Difesa" di Gioacchino Genchi).

Leggi anche "
L'uomo dei telefoni", di Gianni Barbacetto, il Venerdì de la Repubblica, 2 novembre 2007





 




Notizie sull'autore del libro Edoardo Montolli


Edoardo Montolli, trentasei anni, vive a Milano e scrive di crimini. E' autore per Hobby & Work di due thriller, Il boia e La ferocia del coniglio, poi entrati nella collana Giallo Mondadori. Per Aliberti ha pubblicato tre libri: Tribù di Notte, Cara Cronica – Lettere (mai pubblicate) a Cronaca Vera e, insieme a Felice Manti, Il grande abbaglio. Controinchiesta sulla strage di Erba.














Il retro di copertina del libro


Luglio 1992, la Sicilia è dilaniata dalle stragi. In città c’è un poliziotto maledettamente bravo con le tecnologie. Ha lavorato con Falcone e sono tre anni che si occupa dei misteri di Palermo. Si chiama Gioacchino Genchi. E' a lui che chiedono di scoprire qualcosa sulle agende elettroniche del giudice. E di capire dai telefoni se qualcuno spiasse Paolo Borsellino. E lui qualcosa scopre. Scova file cancellati e li ritrova. Poi ipotizza una pista per via D’Amelio: date, nomi, luoghi. Diventa vice del gruppo Falcone-Borsellino. Ma quell’indagine non la finirà mai. Una mattina, mentre l’Italia esulta per l’arresto dei killer, all’improvviso sbatte la porta. E se ne va.
Da allora non ne ha mai parlato. Lo chiamano nei processi più delicati: le talpe nel Ros di Palermo, il caso Dell’Utri. I capi di Cosa Nostra e i colletti bianchi. La vicenda Cuffaro e la sanità siciliana. Le sue consulenze sui telefoni ribaltano giudizi, fanno condannare centinaia di persone e assolvere miriadi di innocenti. Da vent’anni è considerato il più abile consulente telematico delle Procure.
Ogni anno la polizia stila graduatorie e gli assegna un punto più del massimo per le «eccezionali doti morali» e il prestigio che ne consegue.
Finché approda a Catanzaro, per la Why Not di Luigi de Magistris.
Una mattina accende il pc, guarda i tabulati telefonici. E all’improvviso sbianca.
Ma non fa in tempo a stendere una relazione: revocato l’incarico, indagato e perquisito, sequestrato l’«archivio» con tutti i dati fin dal 1992. Attaccato da ogni parte politica. Sospeso dalla polizia. E altrove quattro magistrati perdono il posto. E allora cosa c’era in Why Not, cosa c’era in quei tabulati?
C’erano giudici a contatto con boss, magistrati amici degli indagati e dei loro avvocati. Ma c’era soprattutto un intreccio telefonico economico-politico-giudiziario che da Catanzaro saliva a Roma, incrociando i processi sulle scalate bancarie, la vicenda Umts, i crac Cirio e Parmalat e lo spionaggio Telecom, incuneandosi indietro nel tempo all’origine e al declino di Tangentopoli e a tante, troppe inchieste di cui si era occupato. E agli stessi nomi su cui indagava per via D’Amelio, quando se ne andò sbattendo la porta. E ora che per difendersi ha depositato in tribunale le sue scoperte, può finalmente raccontarlo: perché lasciò allora, perché è stato fermato adesso. Con nomi, date e luoghi. Perché questo lungo e complesso racconto non è la storia di un’inchiesta bloccata a Catanzaro. Questa è la storia della seconda Repubblica.





La casa editrice Aliberti editore


Aliberti editore nasce a Reggio Emilia nel 2001 dall'incontro di alcuni giovani professionisti già attivi da anni nel campo della comunicazione.
La sua base culturale è radicata nel territorio emiliano: una terra piena di memoria e di sogno, di acque e di terre, città e macchine. Da questa radice ineludibile parte all'esplorazione del mondo. La sua vocazione è dunque sin da subito nazionale, così come nazionale è la sua prospettiva editoriale ed imprenditoriale.

 




 


La
pagina facebook dedicata al libro


Recensioni ed articoli sul libro

1) Intervista a Genchi. L'anomalia dell'Italia in mille pagine, Pietro Orsatti, settimanale "Terra", 8 dicembre 2009
2)
Genchi: "Due o tre cose che so di Spatuzza", Edoardo Montolli, settimanale "Oggi", 23 dicembre 2009
3) "Fra le righe #3", Carmelo Amenta, BLOG "Volevo essere Marco Travaglio...", 27 dicembre 2009





Foto e video degli incontri di presentazione del libro


1) Cervignano del Friuli (Meetup Beppe Grillo Udine, 6 dicembre 2009)

[youtube:www.youtube.com/watch?v=CoIhue0Igbs]
Fonte:
SEREUPIN80
 
2) "Genchi, la mafia e Forza Italia", Paolo Dimalio, Antefattoblog.it (Presentazione del libro a Roma, 17 dicembre 2009)

[youtube:www.youtube.com/watch?v=yq3pl2dTXyA]
Fonte:
antefattoblog


Acquista il libro on-line



 


I prossimi appuntamenti dedicati alla presentazione del libro (calendario aggiornato al 4 luglio 2010)

Per tutti gli aggiornamenti seugli appuntamenti di presentazione del libro clicca QUI. Dal BLOG Legittima difesa di Gioacchino Genchi:

 

- mercoledì 7 luglio 2010, ore 19:00, Vigevano (PV);

- giovedì 8 luglio 2010, ore 21:00, Casalgrande (RE);

- lunedì 12 luglio 2010, Palermo;

- giovedì 15 luglio 2010, Monte San Vito (AN);

- venerdì 16 luglio 2010, Polignano a Mare (BA);

- sabato 17 luglio, Margherita di Savoia (BAT);

- veberdì 23 luglio 2010, Avola (SR);

- sabato 24 luglio 2010, Palazzolo Acreide (SR);

- sabato 30 luglio 2010, Mazara del Vallo (TP);

- domenica 8 agosto 2010, Castelbuono (Palermo);

- mercoledì 18 agosto 2010, Sarcedo (Vicenza);

- venerdì 17 settembre 2010, Ancona;

- sabato 18 settembre 2010, Monsano (NA);

- venerdì 24 settembre 2010, Bergamo;

- venerdì 1 ottobre 2010, Roma;








Novità


COMPLOTTISTI E POPCORN

di Edoardo Montolli - 13 febbraio 2010

Il 13 dicembre Massimo Tartaglia taglia come il burro la scorta di Berlusconi e riesce a colpirlo non con un fucile di precisione dalla cima di un palazzo, ma da mezzo metro con un souvenir che tiene in mano.

Prima reazione di Di Pietro: “Sono contro la violenza, ma Berlusconi con il suo comportamento e il suo menefreghismo istiga alla violenza”.
Prima reazione di Maroni, ministro dell’interno, condannato in via definitiva per aver tentato di mordere un polpaccio ad un agente durante la perquisizione alla sede della Lega: “L’episodio gravissimo di ieri trae le sue cause nel clima di contrapposizione violenta e nelle parole dettate dalla dialettica politica”. Sarà.
Primo bollettino medico: frattura del setto nasale e ferita lacero-contusa che ha richiesto punti di sutura al labbro inferiore. “E' molto scosso, abbattuto e dispiaciuto”, dice il primario. Prognosi: venti giorni.

IL MIRACOLO
Poi, d’improvviso, succede qualcosa. Berlusconi, riporta l’Ansa il 13 dicembre, confessa a Emilio Fede: “Sono miracolato, un centimetro in più e avrei perso l’occhio”.
E il viavai al capezzale riunisce tutte le forze politiche. Condanna al gesto di violenza, "senza se e senza ma", dichiara Bersani all'uscita dall'ospedale. Solidarietà, incontri, auguri. Tartaglia viene intanto descritto come un inventore pazzo orientato nel suo gesto dalle parole contro il premier di precisi mandanti morali: giornalisti (Marco Travaglio) e politici (Di Pietro).
Ed è un clamoroso crescere di eventi. Le condizioni di Berlusconi si fanno più serie. La prognosi, riportano le cronache, passa da 20 a 90 giorni. Una prognosi, per essere chiari, gravissima: come quella di un sudamericano cui avevano tagliato un braccio con un machete a Treviso (22/6/08), come l’operaio che si era fratturato addirittura una vertebra cadendo da tre metri in un cantiere (4/8/09), come il rumeno salvato da un carabiniere mentre bruciava vivo in un’auto a Verona (7/8/09), come l’uomo che perse un occhio nel verbano a capodanno del 2007, come il ragazzo di Oristano preso a roncolate dal fratello e finito in ospedale con ferite e fratture a rotula e femore (29/6/05), come il macedone preso a pistolettate nel torinese che rischiava la paralisi (28/05/01), come il superstite di 62 anni caduto nientemeno che da un ultraleggero a Ravenna (16/10/08), come infine la donna di 87 anni investita da un’auto a Bologna con lesioni a torace, vertebre e invalidità permanente (10/2/2003). Novanta giorni, pesantissimo. E allora, fine delle critiche. Tutti muti.
A Natale, Berlusconi, alle agenzie: “Dopo quanto accaduto in piazza del Duomo il clima politico sembra cambiato in meglio: si è certamente rasserenato”. Vero. E quando esce col cerottone ben visibile sul volto e quando poi lo toglie dopo un solo mese e non c’è alcun segno sul suo viso, di fronte a novanta giorni di prognosi su un uomo di 74 anni, è difficile non gridare al “miracolo”. E’ come se il tizio con la vertebra fratturata facesse capriole dopo un mese o se, sempre dopo un mese, l’uomo caduto dall’ultraleggero si mettesse a saltare da mattina a sera. Il professor Nicolò Scuderi, chirurgo plastico de L’Università La Sapienza di Roma, impiega mezza pagina per spiegare ai lettori stupefatti di Oggi che il tutto può essere spiegato con una “coincidenza di fattori fortuiti (nella fattispecie: sede e tipologia del trauma) e del ricorso a una serie di tecniche chirurgiche all’avanguardia. Anche il tipo di pelle, bisogna dire, ha contribuito al recupero ottimale”.
Sarà di sicuro così. Ma martedì arriva il responso della perizia medico legale chiesta dalla Procura: prognosi da venti a quaranta giorni. Non quaranta d’acchito. Da venti a quaranta. Nella migliore delle ipotesi, meno della metà del previsto. Nella peggiore, venti giorni, meno di un quarto.
E nemmeno si può ipotizzare un complotto dei medici rossi, novelli Che Guevara in mano alla Procura, perché la prognosi è addirittura più generosa della prima fatta al San Raffaele. L'aggressore è appena stato rinviato a giudizio.
E la vicenda comincia a ritornare in un alveo di normalità. Anche se una parte, quella dei “mandanti”, poteva pure essere risparmiata fin dall'inizio: bastava leggere bene il blog di Tartaglia, che pure è stato visto (www.myspace.com/elisirmus
icpicture, tornato recentemente attivo) e guardare tra le sue amicizie, per accorgersi che non c’era alcun riferimento politico o giornalistico tra queste, ma quasi esclusivamente artisti o aspiranti tali. Per vedere che Tartaglia, per il quale la difesa ha chiesto l' infermità mentale, era tutt’altro che un inventore pazzo facilmente orientabile. Visto che aveva tra i suoi partners ingegneri elettronici (si veda il suo sito, musicpicture.it) e che il suo sistema opto-audio-elettronico è tuttora tra le 17 opere in vetrina sul “marketing delle tecnologie” (marketingdelletecnologie.it), iniziativa portata avanti nientemeno che dalla Fondazione del Politecnico di Milano.
Invece, è stato montato un enorme dibattito politico sul clima d’odio, diventato presto d’amore. E un dibattito sulla più suggestiva miracolosa guarigione, per un episodio imprevedibile ma capitato solo grazie al fatto che un uomo insospettabile era riuscito a fra breccia nella scorta. E qui, arriva Genchi.

DAL PALCO DELL’IDV
Quando arriva al congresso dell'Idv è un assalto di baci e abbracci. Sale sul palco. E racconta ciò che ha già detto su Telelombardia, in miriadi di interviste e di incontri pubblici, filmati e mandati su Youtube. Basta rivederli per capire a cosa si riferisca: sono tutti uguali. Esprime cioè tutti i suoi dubbi sull’anomalia del comportamento della scorta, che secondo qualsiasi protocollo di sicurezza, non dovrebbe mai aprirsi. Ricorda anche, come ha sempre fatto, che la scorta il premier se l’è scelta lui. E che in passato, avvalendosi di collaboratori poco validi, Berlusconi, già montò un caso clamoroso partendo da un altro fortuito episodio: il ritrovamento di una microspia nel suo studio.
Era l’11 ottobre 1996. Dall’Ansa:
''E' stata trovata durante una bonifica fatta fare a una ditta specializzata; mi hanno spiegato che era perfettamente funzionante e che poteva trasmettere fino a 300 metri di distanza''. La microspia e' stata trovata mercoledi' mattina, ma Berlusconi ha spiegato di aver preferito aspettare che i controlli confermassero che quell' oggetto fosse una microspia attualmente funzionante. ''Voglio anche denunciare alla pubblica opinione una violazione della mia persona, della mia funzione di parlamentare e di leader di Forza Italia. Dico questo anche per tutti i cittadini che si sentono minacciati ogni giorno nei loro diritti''.
Immediate le reazioni. I titoli: Casini: “Polo nel mirino”. Fini: “Servizi deviati ipotesi verosimile”. Mastella: “Clima che debilita la democrazia”. Taradash: “E’ stato potere occulto”. Dalla latitanza si fece vivo pure Bettino Craxi: “Cercare i golpisti”. Solidarietà, allarmismi e preoccupazione. Durò sette mesi. Poi il caso venne archiviato: la pericolosa microspia trovata dalla ditta specializzata nelle bonifiche e "perfettamente funzionante" era “inidonea all’ascolto”. Non andava. Nessuna spy story. La Procura indagò anzi proprio la ditta incaricata dallo staff di Berlusconi della bonifica. Ma poi, alle cronache, non è noto più nulla. Il circo mediatico aperto dal nulla si spense.

6 FEBBRAIO
E allora Genchi, dal palco, definisce, come sempre ha fatto, "pantomima", tutto ciò che accade dopo il colpo di Tartaglia: il premier lasciato ben visibile in mezzo alla folla dolorante col "fazzolettone", che poi è una busta, il premier messo in macchina ma poi lasciato uscire dalla scorta in una maschera di sangue, senza sapere in quel momento se ci fossero o meno altri attentatori. Lui che sale su e giù dall’auto davanti alle telecamere. E tutto ciò che accadrà anche in seguito: il cerottone e la nascita del “partito dell’amore” che, in maniera “provvidenziale” manda in secondo piano tutte le accuse cui è chiamato in questo periodo. In sala, ovazioni. Passa a parlare del suo lavoro nel processo sulle talpe nella DDA di Palermo, terminato in appello con la condanna di Cuffaro. E tutti, dirigenti dell'Idv sul palco compresi, si alzano in piedi. Oltre un minuto di applausi. Ma lascia il congresso con una frase maledettamente profetica sulle "cattiverie che vedrete anche nei prossimi giorni". Sbaglia solo i tempi. E' questione di ore.
Scende, e va a sedersi nel posto che gli hanno riservato in seconda fila. Di fronte ha due sedie vuote, con i cartelli indicanti due nomi che non gli tornano, due persone che arriveranno poco dopo: Bersani. E Latorre, lo stesso Nicola Latorre che appare plurime volte nel suo lungo racconto che mi ha fatto nel libro "Il caso Genchi."
Capisce che qualcosa non funziona. Gli sussurrano che al congresso avrebbero appoggiato la candidatura di De Luca in accordo col Pd. Lo stesso De Luca per il quale nel 2005 l'allora pm di Salerno Gabriella Nuzzi aveva chiesto l'autorizzazione a procedere. La Nuzzi defenestrata per il noto decreto di sequestro e perquisizione fatto a Catanzaro.
Si alza. Saluta. Piglia un taxi. E se ne va.

Alle 11, 01. L'Agi:
CONGRESSO IDV: GENCHI, MIRACOLO QUELLA MADONNINA PER BERLUSCONI. (AGI) - Roma, 6 feb. - "Provvidenziale, quella statuetta della Madonnina. Il cui principale miracolo pare sia stato quello di salvare dalle dimissioni Silvio Berlusconi per quello che stava emergendo, dalle dichiarazioni della moglie, da qualche microfono lasciato aperto mentre Fini diceva delle verita'". Gioacchino Genchi offre alla platea congressuale Idv la sua lettura di uno degli episodi che hanno segnato la cronaca politica recente. Genchi rilancia i dubbi sulla dinamica dell'aggressione di Tartaglia richiamandosi "a quei tanti giovani che su Youtube la stanno analizzando perche' non poteva essere vera". Genchi parla (raccogliera' una vera e propria standing ovation quando rivendica il proprio impegno antimafia) e "da poliziotto che ha diretto servizi di ordine pubblico" allinea dubbi su quella serata in piazza Duomo, non senza toni molto coloriti come quando osserva che "nella protezione delle personalita' c'e' sempre un anello di protezione, come un preservativo, che non puo' essere rotto, tranne per chi ama i rapporti a rischio e tra questi i rapporti non protetti". Il funzionario di polizia critica "quella scorta fatta in casa, scelta da chi aveva un capomafia, un assassino, un trafficante come Mangano a vigilare sulla propria famiglia. Un capomafia fatto passare come stalliere e poi promosso, di fronte alle proteste della mafia, addirittura al rango di 'eroe'". Ancora ironie sulle scene del ferimento di Berlusconi: "Qualunque scorta porta via la personalita' dal luogo dell'aggressione, per evitare che sia uccisa, insieme alla scorta stessa e ad altri inermi. Invece gli hanno fatto fare quello che voleva, e abbiamo visto spuntare quel fazzoletto, nero, enorme. Perche' al nostro premier piacciono accessori di dimensioni inversamente proporzionali alla sua statura. Un fazzolettone enorme, dal quale sembrava dovesse uscire fuori il coniglio di Silvan. Enorme come il cerottone e come la macrospia che tiro' fuori anni fa per accusare le Procure". Ancora pesanti ironie su "quei bollettini medici da Papa morente, dopo il quale lo abbiamo visto tornare meglio di prima, se meglio si puo' dire parlando di Silvio Berlusconi". (AGI)

Ore 11,10, L'Apcom:
Berlusconi/ Genchi: Qualcosa di strano nell'attentato del Duomo Berlusconi/ Genchi: Qualcosa di strano nell'attentato del Duomo Statuetta provvidenziale gli ha evitato dimissioni Roma, 6 feb. (Apcom) - La statuetta che ha colpito Silvio Berlusconi in piazza Duomo lo ha salvato dalle dimissioni: lo ha detto, in un applauditissimo intervento di fronte alla platea del congresso dell'Italia dei Valori in corso a Roma, Gioacchino Genchi, il poliziotto consulente delle procure coinvolto nelle polemiche legate alla inchiesta Why not che ha portato alle dimissioni dalla magistratura di Luigi de Magistris, oggi eurodeputato dell'Idv. Fu "provvidenziale quella statuetta - ha sostenuto - miracolosa, ha salvato Silvio Berlusconi dalle dimissioni forse imminenti". Secondo Genchi "qualcosa non poteva essere vero" nei fatti di piazza Duomo. Basandosi sulla sua esperienza di funzionario di polizia, ha spiegato che "ogni servizio d'ordine ha un anello come un preservativo a protezione delle personalità", e se con Berlusconi non ha funzionato è perché "ama i rapporti a rischio" e ha "la scorta fatta in casa". In particolare, inverosimile appare al vicequestore palermitano il fatto "che non sia stato portato via" dopo il lancio della statuetta, "come si fa in qualunque servizio di scorta per evitare rischi ulteriori per la personalità e la stessa scorta. Gli hanno consentito di fare quello che voleva. E allora abbiamo visto il fazzolettone, sembrava quello di Silvan, pareva dovesse uscire un coniglio, un colombo...". Un fazzolettone, "perché al premier piace scegliere accessori inversamente proporzionali alla sua persona, come quando ha esibito la macrospia trovata nel suo ufficio accusando le procure rosse, io ne ho viste di microspie e non sono fatte così, poi si è capito - ha detto ancora Genchi - che l'aveva messa qualcuno dei suoi...".

E fin qui le agenzie raccontano della dinamica.
Ma alle 11,10, l'Ansa va oltre:
IDV:CONGRESSO; GENCHI, FINTA AGGRESSIONE TARTAGLIA A PREMIER HA SALVATO PREMIER DA DIMISSIONI CHE SAREBBERO ARRIVATE (ANSA) - ROMA, 6 FEB - ''Nel lancio della statuetta del duomo di Milano a Berlusconi non c'e' nulla di vero''.Lo sostiene Gioacchino Genchi, consulente informatico per diverse procure, nel suo intervento al congresso dell'Idv a Roma. Secondo Genchi ''dopo l'outing della moglie di Berlusconi e il fuorionda'' di Gianfranco Fini a Pescara ''provvidenziale e' arrivata quella statuetta che miracolosamente ha salvato Berlusconi dalle dimissioni che sarebbero state imminenti''. Genchi per sostenere la sua tesi cita: ''la mia esperienza in polizia'' e i ''video che tanti giovani propongono su Youtube per capire che nel lancio non c'e' nulla di vero''. L'ex consulente dell'ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris punta il dito contro la scorta che ''e' come un anello o un preservativo che non puo' essere rotto,, e contro lo stesso Berlusconi che ''e' uscito da quell'anello''. Per parla di una ''pantomima coronata da quell'uscita di quel fazzoletto nero ed enorme che sembrava quello di Silvan dal quale mancava solo che uscisse un coniglio'' e ricorda anche la vicenda di diversi anni fa quando Berlusconi, all' epoca all' opposizione, mostro' ''un 'cimicione' enorme che ritrovo' nel suo studio accusando le procure rosse e che era chiaramente falsa''. Genchi, nel suo intervento, difende poi Di Pietro ''dagli schizzi di fango che stanno arrivano''. ''Temo - sostiene - che sia solo l'inizio perche' Di Pietro proprio alcuni giorni fa con sofferenza ha deciso di non far mancare l'appoggio ad una alleanza di centrosinistra per un freno al governo Berlusconi''.

Non serve commentare. Ecco il video integrale:
radioradicale.it
Lo vedrete per tre settimane e conviene scaricarlo. Perché poi Radio Radicale lo toglie dalla Rete.

Ore 11,26. L'Apcom batte un'altra agenzia:
Mafia/Genchi: Non un caso arresto Graviano dopo 'discesa in campo' Mafia/Genchi:Non un caso arresto Graviano dopo 'discesa in campo' "Latitanti vengono catturati quando non servono più" Roma, 6 feb. (Apcom) - C'è un legame fra l'arresto dei fratelli mafiosi Graviano nel 1994 e la 'discesa in campo', ovvero l'autocandidatura di Silvio Berlusconi alla presidenza del Consiglio. Lo ha detto il vicequestore Gioacchino Genchi, l'ex consulente delle Procure coinvolto a suo tempo nelle polemiche sull'inchiesta Why not che hanno portato alle dimissioni dalla magistratura di Luigi de Magistris, oggi deputato europeo dell'Idv. Intervenendo al congresso nazionale dell'Idv, Genchi ha offerto una sua personale ricostruzione degli ultimi vent'anni della storia d'Italia e del rapporto fra mafia e politica, di quella "trattativa di cui oggi ci sono evidenze", ha affermato. "Non è un caso che i fratelli Graviano vengono arrestati a Milano il 7 febbraio del '94, dopo la dichiarazione di Silvio Berlusconi del 6 febbraio che si sarebbe presentato alle elezioni (in realtà Berlusconi parlò il 26 gennaio, l'arresto dei Graviano avvenne il 27 gennaio, ndr)". "Non è un caso che i latitanti mafiosi e assassini vengano arrestati quando non servono più, vengano usati per quelle catture televisive che servono alle carriere di certi poliziotti, di certi magistrati, di certi politici", ha detto ancora Genchi polemizzando con lo scrittore anticamorra Roberto Saviano: "Non è un caso che un anno dopo la copertina di Panorama dedicata a me come 'scandalo' abbia avuto la dedica della copertina dopo aver parlato di Maroni come miglior ministro dell'Interno".

E alle 11,49 cominciano gli attacchi. Casoli. Rotondi. Ronzulli: "diffidiamo delle analisi sull`aggressione a Berlusconi dello spione telefonico Genchi".
A loro piace attribuire reati mai provati, "spione". Agli altri naturalmente. Quelli già confermati in Cassazione per gli esponenti del loro partito, quello è il solito complotto.
E allora sono reazioni evidenti.
Alle 13,30 arrivano al congresso Bersani e Latorre.

Poi, alle ore 15,12, passate le ovazioni, cominciano le reazioni anche dall'Idv. La prima, è di de Magistris. Alle 15,12, Adnkronos:

BERLUSCONI: DE MAGISTRIS, MAGISTRATURA APPROFONDISCA SU AGGRESSIONE TARTAGLIA Roma, 6 feb. - (Adnkronos) - "Non ho ascoltato cio' che ha detto Genchi. La magistratura deve fare approfondimenti seri, come dissi subito ci sono aspetti che non mi convincono, ma non credo sia utile aprire una polemica politica".

Lui, non ha ascoltato. Chi invece lo ha fatto è sicuramente Massimo Donadi, balzato sul palco subito dopo l'intervento. E' stato l'ultimo ad abbracciarlo. E a baciarlo. Tanto che Genchi aveva avuto il suo bel daffare per alzarsi sulla punta di piedi e raggiungerne guance.
E infatti, alle 15,42, l'Apcom batte la sua nota. Ma non è quella che ci si aspetta: “È grave che Genchi abbia fatto certe affermazioni al congresso di Idv, noi rinnoviamo la nostra ferma condanna del gesto di Tartaglia. Queste tesi fantascientifiche non appartengono alla cultura della giustizia e della legalità di Idv”.

Genchi, ormai già in Sicilia, diretto a Caltanissetta, legge l'agenzia. Chiama l'ufficio stampa di Donadi e chiede conto della nota. Pensa di essere in un film. Spiega che Donadi lo sa che lui non ha mai detto che l'aggressione era una finta e non comprende perchè abbia dichiarato queste cose.
Ma l'ufficio stampa dell'Idv non chiarisce le frasi accusatorie di Donadi. No, manda un comunicato con le precisazioni di Genchi. Cioè l'ufficio stampa dell'Idv non manda una sua nota, ma, molto premurosamente, ne invia una di Genchi.
Che esce alle 18,10.
Passano venticinque minuti. Prima reazione di Di Pietro: “La teoria del finto attentato mi pare inimmaginabile e fantasiosa. Purtroppo la statuetta in faccia al presidente del Consiglio c'è stata ed è stato un atto grave ed inaccettabile.” Eppure, anche lui lo sa che Genchi non ha detto che l'attentato è falso.

Ma non serve altro. E' uno stupendo fiorire di durissime dichiarazioni, come ai tempi della microspia. Reagiscono tutti. Sulle agenzie c'è una sola clamorosa assenza. Hanno reagito quelli del Pdl, ovviamente. Ha reagito Casini per l'Udc, ma questo è ancora più ovvio, leggendo la storia di Genchi e le montagne di condanne portate con le sue consulenze a numerosi politici dell'Udc, compresa proprio quella in appello per Cuffaro, sulla quale le ovazioni al congresso si sono sprecate.
Ha reagito l'Idv, che pure era lì ad ascoltarlo e ad applaudirlo. Mancano però, per la verità, sulle agenzie, le prese di posizione di un grosso partito. Non ce n'è proprio traccia.
Manca infatti all'appello "una parola una" detta da un esponente del Pd. Curioso.

Il giorno dopo, sul Corriere della Sera, Pierluigi Battista: Finalmente, il popolo dei complottisti esce dalla riserva indiana e conquista il palco della politica. Il mondo parallelo degli adepti del cospirazionismo, dopo aver celebrato i suoi fasti nella saga di Dan Brown, dopo essersi globalizzato nell'immensa arena del web, prende il centro della scena in un congresso di partito. Il suo profeta si chiama Gioacchino Genchi, il re dei tabulati telefonici, l'archivio vivente di misteriose «tracce» che riguardano centinaia di migliaia di connazionali, che ha scatenato la standing ovation dell’Idv e ha identificato nel souvenir del Duomo l'arma letale del Grande Complotto. La fantasia al potere, anche se forse non è la stessa di quella sognata dai sessantottini.

LE FOTO DI DI PIETRO CON CONTRADA
Già. C’è naturalmente complottismo e complottismo. A Battista piace più guardare quelli, presunti, degli altri. Un vizio ormai di tanti, guardare altrove. Perché improvvisamente Battista dimentica che non un anno ma solo una settimana addietro, sullo stesso Corriere della Sera di cui lui è vicedirettore e non l’usciere, erano state pubblicate le foto di Di Pietro con Contrada del dicembre 1992, nove giorni prima dell’arresto del numero tre del Sisde. Ed era stato facile giocare su quelle pagine e su quelle foto, alla dietrologia.
Anche se qualcuno le ha tirate fuori 18 anni più tardi, e non quando, ad esempio, Di Pietro aveva nel Paese una popolarità dell’80%. Non quando quelle foto, se fossero andate in mano al sultanato della Prima Repubblica, il CAF, avrebbero potuto dare col clima avvelenato, sospettoso e giacobino che c’era, un freno al viavai di arresti di Tangentopoli che portarono alla fine dei vecchi partiti.
Così come più d'uno tentò di fare con le decine e decine di accuse portate a Brescia, dal pm Fabio Salamone, tutte rigorosamente archiviate.
Sarebbero state utili per un violentissimo attacco al simbolo del pool.
Invece quelle foto non uscirono mai per salvare la Prima Repubblica.
Anche perché, di fronte al drappo dei carabinieri e alla caserma che appaiono nelle foto, si pensò probabilmente a porre un freno all'immaginazione.
Diciotto anni più tardi, con Contrada passato ormai alla storia come il funzionario infedele, giocando sulla memoria corta, è allora molto più facile, con quelle foto in mano, giocare al complottismo per il Corriere e per tutti gli altri giornali, a ruota. Dura un po’. Poi, a spegnere le fiammate, ci pensa, manco a dirlo sullo stesso Corriere, il 4 febbraio 2010, un diplomatico editoriale di Sergio Romano alla vigilia del congresso dell’Idv, dal titolo emblematico “L’ossessione del complotto”: “E’ accaduto che la fotografia di un uomo politico, scattata negli anni in cui era magistrato e apparsa ora sul Corriere, abbia generato l’ultimo complotto italiano. Ed era accaduto anche giorni prima per le ricostruzioni sulle rivelazioni di una famosa escort, apparse anch’esse sul Corriere. Nulla di nuovo. La storia degli ultimi decenni, dalla caduta del fascismo a oggi, è una lunga lista di complotti. Non c’è avvenimento, piccolo o grande, dietro il quale non sia stata immaginata la mano di un regista occulto, di un burattinaio, di un «grande vecchio».
E sì che alla fine, in mano, il Corriere della Sera aveva solo foto scattate in una caserma dei carabinieri tra un magistrato e un poliziotto. Un pm e un tutore della legge in una struttura dello Stato.
Ma appunto c’è complottismo e complottismo. Uno vero, azionato dalle foto del Corriere della Sera di Battista. E uno di cui Battista accusa Genchi, azionato dalle parole non dette da Genchi al congresso.
Interessante.
Ma il migliore, in materia, si presentò però proprio per la vicenda della microspia trovata nello studio di Berlusconi. Mentre tutti solidarizzavano con l'attuale premier e lanciavano allarmi e suonavano sirene, il solito complottista l'11 ottobre 1996 dichiarò all'Ansa: “Le microspie vengono usate solo nei film di James Bond. Secondo me la microspia nello studio di Berlusconi è stata messa o da Berlusconi stesso o da qualcuno dei suoi per fargli fare la figura della vittima”. No, non era Genchi a parlare. Si chiama Roberto Maroni, sempre lui, quello del polpaccio e delle critiche al “clima di contrapposizione violenta”. Oggi fa il ministro dell’interno del Governo Berlusconi.
Questione di destino. Quello di Genchi invece lo profetizza ora Panorama, ottimamente informato, che anticipa la sua possibile destituzione dalla polizia. E questa volta non per aver risposto su Facebook, ma per l'intervento sulla "finta aggressione". Quell'intervento travisato da chi lo aveva abbracciato poco prima, Donadi e Di Pietro, incoronando, poco dopo, De Luca a simbolo della nuova alleanza col Pd.

Edoardo Montolli (13 febbraio 2010)

 



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